I TIPI DI ACCENTO, nella grammatica italiana, sono due:
1. Grave (`)
2. Acuto (´)
Di solito l’uso dell’accento all’interno di una parola è facoltativo e viene usato solo nei casi di possibile ambiguità, come ad esempio tra “pésca” dal verbo pescare e “pèsca” come frutto.
L’accento acuto (´), posto sulle vocali “e” ed “o”, indica che queste devono essere pronunciate CHIUSE.
Esempi: réte, mése, cómpito, giórno.
L’accento grave, nelle stesse condizioni, indica che quelle vocali devono essere pronunciate APERTE.
Esempi: chièsa, còsa, bène, fuòri.
L’accento DEVE essere messo sempre sulle parole TRONCHE*
* Tronche sono quelle parole, composte da più sillabe, nelle quali la voce si appoggia sull’ultima sillaba (caffè, andrà, perché…)
Invece, di regola, NON va messo sui monosillabi.
Esempi:
“Io sto con i lupi”.
“Lucio fu mio amico”.
“Maria non sta bene”.
“Vito se ne va”.
Però ci sono dei casi in cui L’ACCENTO È NECESSARIO per distinguere monosillabi che si scrivono nello stesso modo, pur avendo significati diversi.
“È”, con l’accento (verbo).
“E”, senza accento (congiunzione).
“Da”, senza accento è preposizione.
“Dà”, con l’accento è la terza pers. s. del verbo “dare”.
ATTENZIONE:
“Do” (prima pers. s. del verbo “dare”), per consuetudine, NON vuole l’accento, dato che è facilmente distinguibile, nel contesto, dalla nota musicale “Do“.
Idem per “fa”, terza pers. s., indicativo del verbo fare: non vuole l’accento perché, nel contesto, facilmente distinguibile dalla omonima nota musicale.*
*“Fa’”, seconda pers. s. dell’imperativo del verbo “fare” vuole L’APOSTROFO, NON L’ACCENTO, essendo il troncamento di “FAI”.
Il monosillabo “si”, come PRONOME si scrive SENZA ACCENTO.
Esempi:
- “Si dice che Luisa…”,
- “Quei due si conoscevano bene…”.
Invece “sì”, come AVVERBIO AFFERMATIVO, vuole L’ACCENTO GRAVE.
Esempi:
- “Sei partito? Sì, da un’ora”;
- “Mi ami? Sì, tanto!”.
La stessa regola vale per “ne”.
Esso, come PRONOME, NON vuole L’ACCENTO.
Esempio: “Non se ne parla proprio”.
“Né”, come CONGIUNZIONE, invece, vuole L’ACCENTO ACUTO.
Esempio: “Non c’erano né luna né sole”.
“Se”, come CONGIUNZIONE, si scrive senza accento.
Esempio:
“Se io volessi volare…”
Invece “sé” come PRONOME, vuole L’ACCENTO ACUTO.
Esempio: “Luigi parlava tra sé”.
Ma, nel caso di “se stesso”, il “se” NON vuole L’ACCENTO.
“Su qui e su qua l’accento non va”.
Invece su lì e là, l’accento va
“Po'”, come troncamento di “poco”, non vuole l’accento ma L’APOSTROFO.
Esempio:
“Vorrei un po’ di pane”.
Come scrivere i dialoghi senza sbagliare? Che punteggiatura usare?
Innanzitutto, nel discorso diretto i dialoghi vanno racchiusi tra le virgolette basse (« »)*. L’uso della lineetta non è scorretto, ma generalmente sconsigliato.
* Ascii: alt+174 e alt+175
Ecco le regole di base:
- Il verbum dicendi, ossia il verbo che indica l’azione, come chiacchierare, dire o parlare, non va mai preceduto da alcun segno di punteggiatura, nemmeno quando esso segue il dialogo.
Esempi:
- «Se continuerai ad agitarti» disse Amedeo «finirai col farti male!».
- «Smettetela tutti e due!» intervenne Antonio.
- Il punto, alla fine di un discorso diretto, va messo sempre dopo la virgoletta di chiusura; anche quando il dialogo si concluda con un punto interrogativo, esclamativo o con punti di sospensione, (vedi es. 1).
- Quando una frase viene interrotta dal verbum dicendi, la parola che viene dopo la nuova virgoletta di apertura va in minuscolo, trattandosi del proseguo della conversazione in atto.
Esempi:
- «Se continuerai ad agitarti» disse Amedeo «finirai col farti male!».
- «Hai proprio ragione» rispose Mario «meglio che mi calmi».
Sintopoesia vincitrice
Terremotati
di Piero Ordine
Sferzate di gelido vento di tramontana
i tuoi singhiozzi di dolore
che squassano l’anima
rattrappita e impotente.
Seconda classificata
Il matto
di Daniela Cappanari
Stava bene
in quella stanza
d’ospedale
Dicevano
che non era normale
Lui guardava
quello che non si vede
Terza classificata
Senza titolo
di Stefania Cusano
Ad occhi
scalzi
ti guardo
per non fare
rumore.
Segnaliamo, inoltre, le seguenti sintopoesie:
Sei
di Carmen Pillo
Radici
che nuvole accarezzano
Vento leggero
di mancate primavere.
Promesse di giorni gelidi
bussano al cuore.
Adesso,
parlami dell’inverno.
Mondo
di Ida De Giorgio
Sono come la terra,
Tonda.
Ruoto immersa
In un lago di stelle.
Un nucleo rovente di gioia
Mi espande.
Volano
di Franco Roberto Rinaudi
Ombre di farfalla su petali di rosa.
Poi orme diventano.
Le mie labbra sulle tue si posano.
Leggere.
Lei
di Le_Bateau
Solo miraggio
nel mio deserto
esistere
Parole
di Maria Cristina Pazzini
Scritte per gioco
semplici specchi dell’anima
un fiume di sillabe allineate
per dire ciò che il cuore
porta con sé.
Venti parole
di Genny Iero
Sotto la neve
E il sale
Bruciano
Un dolore
E non ti accorgi
Che in me
Sei poesia
Mattia nella gabbia
di Francesco Colaci
Ricordi sbiaditi
di sogni confusi
albergano mente e presente.
Echi di note stonate,
nella camera disadorna ,
scandiscono il tempo.
Senza rete
di Giulia Valente
Volo
Negli abissi dei miei sospiri
Che soli
Sorreggono
Il peso delle nude timidezze
È allora che divento
Libro aperto
Nubi
di Stefania Rossi
Era tempo che spaventa
fruscio di foglie
vento che scuote
rumore di se
pezzi di lei
sarebbero rimasti
come nubi…
Senza titolo
di Salvatore Viscuso
Mi rivolto, nelle doglie del
sonno.
Mi tenta una Porta, mi
colpisce una Luce.
Qualcosa, partorisce un
Mattino. E nasco.
Stretta del cuore
di Maria Fioravante
Stretta di mano destra, per
educazione è obbligatoria .
Forse stringere la sinistra
sarebbe un messaggio
d’amore.
La stretta del cuore.
Color del mare
di Maria Rosa Oneto
Dietro grate arrugginite, fiori
color del mare.
Non smetto di cercare sia il
perdono che il senso grato
della vita.
Ferite
di Dora Di Cara
Raggela e ammutolisce il dolore.
Neve e freddo ricoprono
uomini e animali, straziati.
Pugnali sono le lacrime
lacerano il cuore.
Oltre il vetro
di Mery Carol
Trema
la mia mano
che sfiora e sfalda
la prima neve
sul vetro opaco
che stamani ti cela
agli occhi miei.
La presa del ragno
di Bruna Parendella
Dentro la ragnatela trasparente
Molto pazientemente il tempo attende
Un volo annoiato quotidiano distratto
Sei tu la preda dell’eterno attimo
Vento di gioventù
di Cristina Agostinelli
Era il tempo in cui fiorivano i ciliegi.
Pioggia di petali sui nostri volti.
Leggera, sottile, dolce
come un bacio.
Imparare le parole
di Valentina Carinato
Leggi piano
bambina mia
imparerai
comunque sia
le parole più belle
resteranno nella tua mente
come oasi
medicine
o sentinelle.
La guerra
di Graziella Dimilito
Distruggete il futuro
seminate la morte
deponete le armi
ribaltate la sorte.
L’oblio dell’acqua
«Sembra uno strano fiore» disse il fotografo fra uno scatto e l’altro.
«Già, per questo la ragazzina si è avvicinata» commentò Ardusio, voltandosi verso la bambina singhiozzante abbarbicata alle gambe del padre.
«Brutta sorpresa» proseguì.
Investigatore alle soglie della pensione, ne aveva viste tante, ma la morte continuava a non digerirla.
La radura era piena di poliziotti, raccolti intorno alla mano gonfia e bluastra che emergeva dal groviglio di sterpi sulla riva del fiume. Le dita ad artiglio afferravano l’aria alla ricerca di un sostegno inesistente, mentre il resto del corpo macerava nella fanghiglia, schiaffeggiato dalla corrente che tentava invano di trascinarlo via. Uno straccio azzurro impigliato fra i piedi del cadavere, fluttuava nell’acqua come la coda di una sirena. Il ronzio delle mosche che banchettavano sui resti copriva lo scroscio del fiume.
Un raggio di sole colpì le dita esili e l’anello di diamanti all’anulare lampeggiò come un flash.
Il dottor Cardula, medico legale, avvolto in una tuta bianca apparve come un fantasma, sbucando dagli alberi.
«Cosa abbiamo qui? Mi si illustri il ritrovamento» chiese. Ardusio alzò gli occhi al cielo prima di rispondergli, odiava la pomposità di quell’uomo.
«Donna, forse un incidente o un suicidio, non una rapina» disse indicando l’anello.
«È nuda» sentenziò il medico e Ardusio sospirò di fronte all’ovvietà.
«Recuperatela» ordinò Cardula.
La squadra si attivò ed il corpo fu adagiato su un telo.
«Giovane, circa vent’anni» Cardula enunciava le sue considerazioni dopo aver acceso un registratore.
Era accovacciato accanto al telo e seguiva le linee del cadavere sfiorandolo con le dita come se lo accarezzasse. «Segni di tagli sul ventre e sui seni, superficiali, ferita profonda al collo, vicino alla giugulare, bruciature di sigaretta. Anzi, sono tracce più grandi, forse un sigaro.
Segni di legamenti a polsi e caviglie, assenza dei bulbi oculari.
Ardusio chiese:«Pesci?» sperando in una risposta diversa dall’inevitabile.
«Direi di no, avulsione volontaria. Ha un tatuaggio sulla spalla destra, una strega a cavallo di una scopa». Ardusio sobbalzò: «Lia Canzi. È scomparsa due settimane fa. Avrebbe dovuto sposarsi fra un mese».
«Buon per lo sposo» concluse il medico, poi diede disposizioni per il trasferimento del corpo in obitorio.
Ardusio evitò commenti, non sopportava l’umorismo macabro, e lo salutò con un cenno.
Cardula si allontanò, si sfilò la tuta ed entrò in auto. Programmava mentalmente tutti i gesti che avrebbe eseguito di lì a poco: la descrizione delle ferite, la lama del bisturi che recide pelle, muscoli, ossa, l’analisi degli organi interni. Avrebbe quantificato il dolore e la sofferenza patiti dalla donna ed anche per quanto tempo aveva sopportato quell’agonia. Controllò la carica residua del registratore. Era uno strumento fondamentale. Avrebbe riascoltato tutto a casa, sprofondato nella poltrona, un Avana fra le dita, sorseggiando quel delizioso liquido rosso, scrutato dalle decine di occhi ordinatamente disposti sugli scaffali all’interno di barattoli di vetro. Certo, avrebbe sentito solo la propria voce senza le urla della ragazza, ma era curioso di sapere se ne avrebbe tratto lo stesso piacere.
Povero Ardusio, non avrebbe mai potuto capire quanto ci si annoia a succhiare il sangue dal collo altrui per secoli. Per non parlare poi della difficoltà di trovare delle vergini! Torturarle rendeva il sangue più dolce. Da gourmet. Si voltò a guardare il fiume: «Pochi metri e sarebbe scomparsa in mare. Solo pochi metri, devo stare più attento la prossima volta!» pensò.
Poi mise in moto e partì.
Dietro le quinte di un orrendo delitto
Franco Roberto Rinaudi e Marina Lorena Costanza
New York, 15 luglio 1938, 38° piano di un grattacielo a Midtown.
Nella camera da letto di un elegante appartamento, giace a terra, tra il letto e l’armadio, il corpo di Al Bacino, noto gangster italo-americano, con il cranio fracassato. Accanto a lui un pesante candelabro yiddish a sette braccia è visibilmente macchiato di rosso e sul pavimento, scritta col sangue, una sola incerta parola: “CRAZY”. Dalla finestra aperta entra il tepore della notte estiva e nel salotto, a parte i frammenti di un prezioso vaso ridotto in pezzi, tutto è in ordine. All’arrivo dell’ispettore Radetzky, seguito dai due agenti ombra, Von Trotta e Forelle, è presente solo il portiere che ha trovato il corpo e subito avvisato la polizia.
Rettifico… sono presente, in altro modo, anch’io e non solo per narrarvi quanto accade.
RADETZKY
Dunque dunque , non ci sono segni di scasso, visto che il portiere ha aperto dall’esterno, col passepartout, la porta regolarmente chiusa. La vittima è stata uccisa con un solo, violentissimo colpo, sul lobo occipitale.
VON TROTTA
Non penso Boss, che con un pitale si possa sfondare un cranio.
RADETZKY
Non dire stronzate Agente Trota, il colpo è stato inferto con un candelabro.
VON TROTTA
Von Trotta, Boss…
RADETZKY
E non mi chiamare Boss, mi da sui nervi Trota. Forelle, ha trovato impronte sul candelabro o in casa?
FORELLE
Nossignore signore, nessuna impronta signore!
RADETZKY
Non mi chiamare signore, mi da sui nervi Forelle!
VON TROTTA
Forse l’assassino indossava i guanti, Boss!
RADETZKY
Non dire fesserie Fon Trota, chi va in giro a luglio con i guanti!? Va a vedere sulla scala antincendio se c’è qualcuno, piuttosto. Marcia!
VON TROTTA
Non c’è nessuno Boss, solo un gatto nero.
RADETZKY
NON… MI… CHIAMARE… BOSS… altrimenti mi incazzo! Mi ricorda il nome con cui mi facevo chiamare prima.-
VON TROTTA
Ok B…abbo.
RADETZKY
Agente Forelle, chiama in centrale e fatti mandare lo schedario dei gangster che delinquono senza lasciare impronte.
VON TROTTA
Forse è stata una puttana, in arte Crazy, a colpirlo, nuda e con i guanti, donna di classe.-
RADETZKY
Agente scelto Fon Trotta, dove cavolo ti hanno promosso agente scelto?
VON TROTTA
A Tirana daddy, vicino ad Albany!
RADETZKY
Agente Forelle, visto che sei al telefono, fatti mandare anche lo schedario delle prostitute che esercitano con i guanti.
FORELLE
Signorsì, Signore!
Ops, volevo dire Ok,Boss!
VON TROTTA
Forse l’assassino è salito e ridisceso dalla scala antincendio. La finestra è aperta.
RADETZKY
Bestia di fiume, non lo sai che nessuno può salire da li? Le scale antincendio si fermano al penultimo piano. Arrivano a terra solo se qualcuno scende dall’alto. Non hai mai visto come sono fatti i grattacieli Fon Trotten? Ma dove vivi?-
VON TROTTA
Al Queens, con te, daddy…
RADETZKY
Fuck you, Renzy!
… E mentre io assisto invisibile e testimone, penso che questi tre, mai arriveranno alla semplice e lampante verità che i loro occhi non vedono. Dopo aver rotto, facendola cadere accidentalmente , il vaso di vetro sul tavolino del salotto, Al Bacino mi ha inseguito per farmela pagare. Io, scappando a zig zag, mi sono rifugiato sull’alto armadio della stanza da letto, e da li, accidentalmente sia chiaro, ho fatto cadere il grande candelabro sul cranio del mio padrone e signore. Ricordo ancora, tra il dispiacere più profondo, le sue ultime parole: “Crazy, è l’ultima che mi fai!”. Ed ora sto sulle scale a cercare un pò di refrigerio in questa notte di luglio, miagolando alla luna in attesa che questi tre completino le indagini e si tolgano dalle scatole!
Velenosi rimedi
Vi raccontiamo una storia di tanto tempo fa, accaduta in un piccolo borgo marinaro disteso sotto uno sperone di roccia, ora rinomata stazione turistica balneare.
La famiglia più aristocratica del posto viveva un tempo nel caseggiato adiacente la chiesa parrocchiale, proprio sotto la torre saracena, da dove con un colpo d’occhio si ammira il porto, la distesa azzurra del mare e le isole che fanno capolino.
Erano farmacisti e dovevano la loro fortuna proprio a questa attività.
Al pianterreno della loro dimora c’era l’antica farmacia, divenuta ormai un pezzo di storia del borgo.
Preziosi barattoli di vetro con le scritte dorate, vasi di ceramica decorati con foglie e indecifrabili nomi latini riempivano vetrine e scaffali di legno intarsiato. Uno scrigno di sapienza e speranza racchiuso in quella piccola bottega.
Si narra che una signora di mezza età, dai modi eleganti e decisi, gestiva il tutto con l’aiuto della sola figliola. Erano finiti però i tempi della ricchezza e la precaria stabilità economica imponeva alla altera signora nuovi modi di guadagno, così, per non finire sul lastrico, in quel periodo ospitava, nella sua casa piena di eleganti stanze, un cardinale.
Il porporato nelle lunghissime notti invernali però anziché godere dell’ospitalità delle due donne, nel modo più consono al suo rango, godeva dei suoi stravizi e di notte irrompeva nella stanza della figliola usandole ripetutamente violenza, sotto la minaccia della maledizione divina su lei e sulla madre.
Ma la donna non dormiva certo da piedi, insospettita dal volto triste della figlia e dallo sguardo basso del prelato, iniziò a pedinare proprio questo. Una notte alla fioca luce di una candela lo seguì e scoprì i suoi abusi. Lo spettacolo che si rivelò ai suoi occhi la fece morire di dolore e rinascere di rabbia e vendetta.
La fanciulla silenziosamente spaurita ed esanime giaceva sul letto, al fianco del peccatore. Sul talamo spiccava il rosso della veste cardinalizia.
Così per prima cosa la donna preparò un infuso di prezzemolo per la povera figliola: un aborto era quello che ci voleva per evitare uno scandalo. Purtroppo la ragazza non sopportò la violenza dei dolori e morì in modo atroce. Questo contribuì a trasformare la rabbia della madre verso quell’uomo in odio puro, che ne segnò la fine.
La signora scese nei piani bassi del suo palazzo, dove teneva le erbe più rare e venefiche. Lì tra vasi, alambicchi, cicuta, erba del diavolo e belladonna, preparò la pozione per il cardinale.
L’ampolla, brulicante di erbe e vermi, venne filtrata e offerta dopo cena come amaro salutare.
L’effetto fu lento e il peccatore rese l’anima a Dio tra spasmi e pentimenti.
Perché vi raccontiamo questa triste storia?
Se vi trovaste di notte a passare vicino alla chiesa, magari con l’intento di rimirare il panorama notturno, accelerate il passo e non prestate attenzione alla fioca luce della candela che filtra dalle persiane della vecchia dimora.
Soprattutto tappatevi le orecchie se sentirete le grida strazianti di un peccatore, è tutto normale, è una madre che protegge la sua figliola.
Occhi vitrei
Valentina Carinato e Andrea De Marchi
Voi non mi crederete, nemmeno io voglio crederci, voglio pensare che sia un incubo…
Un brutto sogno, in confronto ad esso, è una felicità effimera.
Si presenta ogni notte e senza occhi mi osserva; perché quelli non sono occhi, non riesco a concepirne la forma, la profondità: sono vuoti.
Mi guarda e sorride, seduto ai piedi del mio letto.
Io socchiudo gli occhi, fingo di dormire, ma credo che lui lo sappia, e ride di un suono che, al solo sentirlo, fa scattare l’impulso di lacerarmi i timpani con le mie stesse unghie.
Il dannato suono di quando singhiozza, il suo scrutarmi incessante…
Non è del nostro mondo.
Non devo battere ciglio, e assicurarmi che lui non si muova dal suo punto strategico.
Pagai a care spese questo mio sbaglio in passato: al chiudersi dei miei occhi, lui si dilettava nell’avvicinarsi.
Io sentivo il suo respiro…
Mi sussurrava una cantilena, con una voce che gelerebbe le vene di un cadavere.
In sua presenza non si ha la forza di parlare.
Inconcepibile.
Al minimo tentativo di farlo, lo sterno si blocca dal terrore; non si può far altro che osservare i suoi lineamenti immondi, mentre lui ricambia con piacere; sperando che prima o poi si dissolva.
La vera paura incombe nel momento in cui viene a farmi visita.
Lui vuole che io lo senta arrivare, penso che provi un piacere sublime nel percepire l’angoscia del mio animo.
Ogni notte, ogni dannata notte, corre imperterrito le scale. Dopo un attimo di profondo silenzio, apre lentamente la porta in modo tale che io senta il cigolio, per poi contorcersi, strisciando come un verme fino a giungere i piedi del mio letto.
Perdonate il mio essere vago in cospetto al suo nome, ma non voglio attribuire a quell’essere una qualsiasi parola che possa lontanamente identificarlo. Non lo può avere.
L’ altra sera, di ritorno dal golf club a cui sono affezionato e con qualche grado alcolico di troppo l’ho intravisto al semaforo.
Ero fermo ad aspettare il verde rovistando nel cruscotto alla ricerca di una mentina. E nel cruscotto lo vidi, vidi due cerchi vuoti.
Il clacson della Mercedes che avevo dietro mi fece sobbalzare. Così, di scatto, ingranai la prima, proseguii imperterrito senza dare peso all’accaduto. «Saranno i fumi dell’alcol» pensai e probabilmente lo erano. L’episodio è rimasto unico, irreale e inconfutabile. Ciò non toglie, non elimina il senso che pervade la mia esistenza. Un senso dannatamente brutto, anzi orrendo, anzi, non lo so. Non nulla oramai, nulla è tangibile, è un sogno, un’ incubo.
Lui si nasconde durante il giorno, si nasconde alla luce del sole e piomba nella notte. La mia notte insonne. Mi sta rendendo simile a lui. I miei occhi sono cerchiati di nero, un nero pece. La pelle è diafana, trasparente e sto dimagrendo, sto deperendo lentamente. Sto perdendo me stesso lentamente e lentamente diventerò uno spettro? Ah no, questo no, non lo permetterò.
Una volta mio nonno mi diceva: «Devi fare buon viso a cattivo gioco ragazzo mio». Io ridevo senza cogliere l’essenza delle sue parole. Nemmeno ora lo capisco del tutto.
Buon viso a cattivo gioco oppure buon gioco a cattivo viso. Cattivo, buono, orrido, infido, indifferente, strafottente… Vivo o morto? Sopravvissuto, superiore, coraggioso eroe.
Eh no, io sono io, vivo nella mia misera carne.
Cammino, lavoro, mangio, ho un cuore, un cervello, uno spirito. Io solo, unico, affronterò lui ad occhi aperti.
Lo guarderò dritto nei suoi occhi vuoti, farò il mio buon cattivo gioco. Un gioco perforante, duro fino all’ultimo.
Farò buon viso a cattivo gioco sarò allegramente spettrale. Spettralmente inaspettabile. Inaspettatamente vivo.
Killer di cuori
Gaetano Cubisino Di Geronimo e Maria Teresa Dotti
Un tremore la colse, dall’altro capo del filo una voce sconosciuta:
«Abbiamo qualcosa per lei, ma non le posso dire per telefono, dove possiamo incontrarci?».
«Oggi sono di servizio allo stadio, a mezzogiorno all’ingresso della curva sud».
«Sta bene, non manchi, abbiamo informazioni interessanti sul killer».
Concetta Esposito si morse il labbro, un tic nervoso le chiuse gli occhi.
Chissà di cosa aveva paura, lei che la paura l’aveva sempre sfidata.
Concetta Esposito, vice questore, tirò un profondo respiro e cercò di ritrovare la calma.
«Andrà tutto per il verso giusto» pensò «tutto alla perfezione». Già l’eccitazione correva sulla pelle.
Gli omicidi, consumati negli spogliatoi dei campi di calcio, le vittime, sempre calciatori. Cominciando dal primo, il suo ex marito, anche lui poliziotto.
Negli ultimi omicidi, avvenuti sempre di sabato la tecnica si era raffinata, il killer aspettava che la vittima venisse sostituita e che si avviasse agli spogliatoi, approfittando del fattore sorpresa li tramortiva con un colpo di karate, li evirava e poi con un taglio dall’inguine alla gola ne estraeva il cuore. Era molto rischioso perchè avevano installato telecamere di sorveglianza, eppure non aveva lasciato tracce, nessuna, mai.
Pioveva quando arrivò allo stadio, indossò un impermeabile di plastica nero con il cappuccio, una giornata grigia, una giornata perfetta per l’ennesimo omicidio.
Squillò il cellulare: «Eccoti amico!» e rispose con molta calma:
«io ci sono, mi raggiunga negli spogliatoi, potremo parlare indisturbati».
Il tifo sugli spalti era fortissimo, la pioggia metteva fretta a tutti, con abilità svoltò tra i corridoi, salì e scese scale, si calo’ da una grata, scivolo’ nelle docce deserte, doveva solo attendere.
L’eco dei passi, il fiato si fece corto mentre un filo di luce entrò dalla porta, un uomo di corporatura robusta avanzò furtivo.
Stette per un attimo fermo al centro della stanza, poi pensò di essere troppo vulnerabile e si riparò dentro il primo bagno alla sua destra.
Le scappò una smorfia, la mossa più stupida che l’uomo potesse fare.
Mise la mano in tasca ed estrasse un bisturi bellissimo, la perfezione del taglio nella lama affilatissima. «Mi spiace per te amico, non voglio neppure sapere cosa hai scoperto, porterai le tue scoperte all’inferno».
Con un calcio spalancò la porta del bagno.
Lui stava lì puntandola con una pistola, Concetta fece un passo indietro sorpresa ma riprese subito il controllo e con un guizzo lo colpì alla mano con il bisturi che rispose con una riga dritta e precisa, un fiotto di sangue gli schizzò in faccia e la pistola cadde, svelta la allontanò con un piede, l’uomo cercò di arginare la profonda ferita del polso, con un colpo alle ginocchia lei lo fece cadere e lo afferrò per la gola, strinse la presa e lui rantolò, gli poggiò la lama alla gola.
«Chi sei e cosa vuoi?».
«Sappiamo che tu sei la killer e vogliamo salvarti, abbiamo scoperto la cura del tuo difetto genetico».
«Nessun difetto» disse senza allentare la presa «io ho fame e stasera ti mangerò il cuore».
Affondò il bisturi nella gola, l’uomo si accasciò e lei tagliò all’altezza dell’inguine; il pene le restò in mano, spinse la mano in su, la introdusse, cercò il cuore che stranamente batteva ancora, con un movimento circolare lo strappò. Stava ancora in ginocchio quando la porta si aprì e si sentì uno sparo. Concetta si accasciò con un urlo e svenne.
Quando riprese conoscenza, si rese conto che stava in una clinica, allora ricordò tutto. Un poliziotto si avvicinò e le disse: «Commissario, l’abbiamo catturata in flagrante!».
«Ho fame. Tanta fame».
Mille cuori le si mossero in petto.
Il silenzio non è innocente
Maria Fioravante e Stefania Rossi
Nella bella Firenze nacquero due bambine, Eleonora e Lidia, due gemelle. Identiche nell’aspetto, ma opposte nel carattere, nei modi di fare e affrontare la vita.
Figlie di un grande e stimato magistrato molto temuto negli anni del terrorismo, personaggio alquanto particolare; nei suoi processi non c’era spazio per possibili risoluzioni facili.
Condannava tutti, tutti quelli che lui riteneva capaci di reiterazione dello stesso reato. Non era affatto amato e così anche le sue figlie, ma nonostante questo era riuscito ad inserire Eleonora, la più docile e preferita, in uno studio un po’ lontano da casa, che riusciva a raggiungere in bicicletta seguendo il fiume; tutto questo, subito dopo che ebbe finito la scuola. Lidia nel frattempo, non veniva quasi considerata da suo padre, come se fosse fuori dalla famiglia. In fondo era così.
Lei era fuori dagli schemi, sperava di scappare presto da quella provincia, visto che era odiata e malvista da tutti. C’era qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di buio, di orribile…
Un giorno di novembre, quando la nebbia avvolge tutto, perfino i rumori, Eleonora arrivata all’ufficio, sentì che qualcosa non andava, sentiva il freddo scorrere lungo la schiena; aprì così, di scatto, la porta dello studio e trovò il corpo di suo padre disteso sul tappeto rosso di velluto, ma la sua testa era poggiata sulla scrivania, con le labbra cucite… come se avessero lasciato una firma, a quello scempio.
Tanti indagati, visto il suo passato, ma nulla fu risolto. Eleonora non si diede per vinta e, da sola, continuò a indagare sul delitto di suo padre.
Passarono anni, e cercando in vari archivi, trovò delle e-mail concernenti il traffico di bambini violati. Fu un colpo al cuore, ma non poteva mollare proprio in quel momento. C’era forse una svolta a tutto il suo cercare.
Una sera decise di andare a casa di sua sorella Lidia senza un preavviso, come di solito faceva… sentiva rumori e troppa felicità in quei discorsi. Entrò, e la trovò seduta davanti al camino, con un uomo. Quell’uomo non era nuovo agli occhi di Eleonora, lo aveva già incontrato, ricordava bene il suo viso: era uno degli indagati da suo padre. Era libero dopo 10 anni di prigione, condannato dallo stesso magistrato, suo padre.
Il loro parlare era fin troppo libero, si sentiva che fossero amanti.
Eleonora domandò a Lidia cosa ci facesse con quell’uomo, quel delinquente, forse assassino di suo padre; le sue risposte non furono vaghe, anzi, rispose che erano amanti da un po’ e che era fiera di questo.
Ma le disse di non essere l’assassino di suo padre, ma solo il suo complice. Eleonora sconvolta, e senza parole cadde sulla poltrona, ascoltò le parole di sua sorella senza vedere nei suoi occhi nessun dolore, nessun rimpianto.
Riuscì solo a farle una domanda:
«Perché, perché Lidia?».
Lidia con viso soddisfatto le rispose:
«Perché nostro padre era il re, e mentre trattava te come una principessa, ogni sera veniva da me, e mi costringeva ad avere rapporti con lui! Si, Eleonora! Era un uomo nero, cosa che tu non hai mai visto. Non ho più resistito e l’ho decapitato con l’aiuto di Luigi!».
Prese allora un coltello, le si avvicinò e incominciò a sfiorarle il viso. Luigi la teneva ferma sulla poltrona, mentre Lidia incominciò a sfregiarle il viso. Urla, pianti e implorazioni venivano dalla voce di Eleonora, che ormai sfinita da quella tortura, morì lì, sulla poltrona blu che ormai era divenuta rossa del suo sangue.
Lidia senza scomporsi prese la pelle del viso e piangendo la conservò come un cimelio! In ginocchio, piangendo ripeteva:
«Se solo non avessi portato questa maschera saresti ancora viva, sorellina. Viva… ma legata al tuo uomo nero!».
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