Baci affamati
nascosti,
rubati
in un attimo,
bocche e
mani
che si cercano
nel buio della stanza.
Respiri affannati,
trattenuti,
sussurrati.
Due corpi,
all’unisono
ondeggiano,
al ritmo del respiro.
Sono appeso ad un filo di ragnatela
Maestria del tuo amico che gira per casa
Ti guardo
” Quanto sei bella ”
Lucida la tua pelle di marmo
Gambe aperte alla notte dell’estate
Schiena da farci cavalcare gli angeli
Abbracci il tuo cuscino per sentirmi più vicino
Pulso altrove , diversamente dal solito
Magari adesso mi darai ascolto
Chissà se avrò una nuova opportunità
Ti do consigli che non ascolti mai
Batto dentro di te senza mai una risposta
Mestiere difficile il mercante di luce
Impossibile cancellare il tuo nome dal mio
Fammi splendere nella tua anima ribelle
Smettila di perderti nei meandri dei tuoi tortuosi pensieri
Pezzi di vetro sono i tuoi occhi ora
Cola il rosso sulle lenzuola mentre piangi
Tortura alla vita la tua
Un sole senza ombre.
Un mare senza schiuma ti attende se solo lo volessi
Lascia perdere quel valzer di parole mancate
Dai retta ad un piccolo cuore che batte solo per te
Fammi tornare nella tua carne dove ti posso rendere immortale
I tre buffoni
Tre è un trio
tre è una triade
tre è la trinità
tre lati ha il triangolo
tre alberi il veliero
tre è il numero perfetto
tre sono i porcellini
tre sono qui, quo e qua
tre i bassotti della banda
ma se a capo sono in tre
vai a capire chi comanda
con la triplice alleanza
si è avviata la nuova danza
danno ordini a destra e a manca
tutta la truppa si stanca e si sfianca
e crepa sopra o sotto la panca
uno mangia e fa di conto
due piange ogni momento
tre non c’è, ha un contrattempo
il sociologo eminente
lo dichiara apertamente:
le bugie son professione
questo è il potere
imparate la lezione!
La nozione di potere
è il contrario dell’amore
perché – ormai si sa
nega ogni solidarietà
alla corte del re
sarebbero sempre in tre:
tre simpatici marpioni
tre burloni mattacchioni
tre buffoni lazzaroni
Vincitore
Renata Olivetto
La tela del ragno
Era un’ alba caldissima. Una formichina già lavorava per portare al sicuro le provviste per l’inverno. Quasi vicino al suo formicaio appeso ad un filo di seta un grosso ragno nero dondolava da una foglia all’altra disegnando divertentissime traiettorie. Lei lo guardava stupita e con un po’ d’invidia. -“Io lavoro sempre, mentre lui si diverte”- pensava. Il ragno furbacchione, con dolcezza la chiamò. -“Ciao bellissima formichina,fermati a giocare un po’ con me; lavori sempre, ma sei ancora piccola, dovresti giocare, non lavorare”-. La formichina rispose -Non posso, devo portare questa briciola di pane nella dispensa-
Poi, stanca e invogliata da quelle lusinghe, decise di fermarsi solo un momento per riposarsi.
-Va bene… fammi salire- gli disse -ma solo per un attimo-
– Certo- rispose il ragno, già con l’acquolina in bocca.
Le avvicinò il filo di seta luminosa, la formichina lasciò la briciola e afferrò quel filo prezioso; in men che non si dica il ragno imprigionò la povera sventurata nella sua tela e stanco delle sue grida se la divorò.
Morale : Bisogna fare molta attenzione alle troppe lusinghe , dietro potrebbe esserci una trappola.
Secondo classificato
Maria La Bianca
Niente per cena
Si erano nascosti nella tana, mamma coniglio insieme con il figli tremanti e stretti contro la parete perché nessuno arrivi con gli artigli. Da lì era passato un cacciatore con la cintura carica di piombo ma la fortuna volle che al momento fosse distratto dal volo di un colombo. Di uscire allo scoperto non c’è verso disse la madre ai figli già affamati ché se una volta abbiam salvato il collo non sempre saremo risparmiati. Si stringono più forte i fratellini implorando per un cespo d’insalata e la mamma che bene sa la fame allunga fuori il muso addolorata. Dentro la tana sarebbero al sicuro ma non può sentire ancora quei lamenti perciò vorrebbe superare la paura per dare ai figli qualcosa sotto i denti. Vola basso sull’erba uno sparviero uscito da una macchia lì vicino per procurarsi andando così a caccia se non il pranzo almeno uno spuntino. Niente da fare, non c’è proprio verso, dobbiamo sopportare a pancia vuota sperando che si stanchi di aspettare e a noi tocchi in premio una carota. Il giorno è lungo senza aver mangiato e arriva infine il buio che tutto inghiotte si fanno più flebili i lamenti mentre attendono la resa i predatori oscuri della notte. Nemmeno la speranza così resta a chi è vissuto sempre in preda alla paura e sarà la fame prima o poi a farlo fuori se non c’è stata ancora una cattura.
Riflette lo sparviero: «Che mi costa?Mi fò vegetariano a bella posta!».
Così fa fuori dei conigli l’insalata, mentre coniglia osserva preoccupata.
«Sparviero, mangi il pranzo dei miei figli? Un cancro ti consumi e ti si pigli!»
Come gli dico che ti sei fatto vego e che ti sei mangiato l’insalata, che gli spiego?
«Coniglia, sono tempi duri assai, voi state rintanati, io devo pur mangiare, tu lo sai.
Bisogna che si cambi, non datevi alla fuga non mangio più la carne, mi mangio la lattuga».
«Lo sai che hai ragione? Bisogna pur campare, anche a noi serve qualcosa da mangiare.
Venite qua ragazzi, guardate quanto è bello, si fa per dire certo, quest’uccello…
se lui s’è convertito, mangiando la verdura, ci convertiamo adesso pure noi, senza paura».
Ciò detto, in un sol salto i rosicanti si gettano sul povero sparviero tutti quanti
che colto senza dubbio di sorpresa dichiara al mondo intero la sua resa.
La storia sarà trista ma ci insegna che non sempre è il fato quello che ci segna
e che a capovolger la natura, non sai cosa t’aspetta, che c’è d’aver paura.
Terzo classificato
Lucia Amorosi
Le favole di Mimma
Mimma raccontava favole, sottovoce, per non disturbare. Prendeva una favola famosa e gesticolando, lentamente, la plasmava a modo suo, sempre sorridendo con gli occhi. Allora magicamente uno stupido principe restava ranocchio; la fanciulla brandiva una spada e si liberava da sola dal drago; la bimba vestita di rosso passeggiava nel bosco con il lupo e spesso li trovavi di sera, con la nonna, al pub. Mimma regalava le sue fiabe che sapevano di vita vera pur non rubando nulla al sogno; chi sapeva ascoltarle si addormentava felice.
MORALE: Possiamo cambiare i finali delle favole, possiamo stravolgerli. Siamo liberi di sognare.
Ora che sei un’immagine di copertina
senza il sorriso ignaro del dolore
sul volto rimasto impresso nella sabbia
e gli occhi chiusi per sempre
pietosa canta la risacca
culla e sudario senza lacrime.
Sarà ancora una riva a cui bagnarsi
in giorni di svago e corpi al sole
il lembo di terra per sempre consacrato
ai tuoi pochi anni e alla nostra vergogna?
Siamo tutti trascinati al fondo
sbattuti da quel sorso d’aria mancato
e ancora vivi noi per sollevare la testa
nello sguardo di tuo padre
oppure siamo già annegati
nell’abitudine dello strazio altrui?
Passerà in rassegna il tuo volto
il volto di tuo fratello
fratelli accanto a fratelli ancora
volti silenziosi per il nostro silenzio.
Non basta un minuto.
E vorrebbero essere braccia
presa forte che non ti perde
piccoli passi lasciati nell’impronta
e impronta più grande a seguire
le mie parole sottratte al pudore
di non sapere se non dire
e altro non sapere fare per te.
Ma ti prometto che oggi
e domani e domani ancora
proteggerò il tuo sorriso
in ogni volto di bambino e sarò terra
per ogni suo passo all’approdo.
Con calma,
gambe accavallate, polso fermo
la mano compiva il tragitto dalla bocca
(dove la lingua umettava l’indice laccato)
alla rivista, dove quel dito piegandosi sfogliava,
sfogliava, cercava.
I denti mordicchiavano labbra rosse.
Le ciglia pesanti accompagnavano lo sguardo acuto
che coglieva ogni immagine, la catalogava
e la consegnava al cervello.
Con calma,
le pose di quei corpi,
quelle membra muscolose, quelle carni nude
provocavano nella donna dei lampi di luce
che, uno ad uno,
dalle sinapsi arrivavano alla pelle,
sotto la pelle, sotto la gonna.
Raccoglierò i pensieri
come castagne,
via le spine.
usciranno lucenti
e invitanti, frutto
di questo autunno
che avanza.
Con le lunghe foglie
farò corone
e ornamenti,
come quando ero
bambina.
Nell’aria
un buon odore
di caldarroste.
Per sconfiggere così
la lieve malinconia
delle brume
d’ottobre…
Quando entrai lo vidi subito, stava seduto al solito tavolo, la vecchia giacca di fustagno e un cappello nero da buttero calato sugli occhi.
Sul tavolo un bicchiere di vino, un tozzo di pane e due fette di pancetta. Feci un segno con la testa e lui assentì, sedetti.
Fece un cenno e Gianna mi portò un bicchiere di rosso.
Era scuro in volto e la piega delle labbra denunciava amarezza mista a rabbia.
Sapevo che Francesca, sua figlia, aveva venduto la cascina e che sarebbe andata a vivere in città.
– Domani va via? –
– Si –
– E tu? –
– Boh? –
Il suo sguardo stava perduto su una goccia di vino sul marmo bianco che sembrava una goccia di sangue.
All’improvviso socchiuse gli occhi e strinse le labbra, serrò i pugni e li battè con forza sul tavolo
– Porca vacca puttana! – urlò.
Si alzò, la sedia cadde e si fece silenzio.
Mi afferrò le mani e le strinse con forza; io sentii il tremore e il gelo.
Si avviò e uscì in strada sbattendo la porta.
Venne Gianna e con un strofinaccio, asciugò il vino versato.
– Che succede? –
– La figlia va in città, ha venduto tutto e lui domani va in una casa di riposo-
Pagai e uscii. Vidi la sua ombra che si perdeva nella nebbia.
Poi non lo vidi più, nella notte si era lanciato dal ponte della ferrovia.
Soffiava da un po’
un ponentino leggero,
fresco e invadente,
scarmigliava i capelli,
carezzava le gote
rubava sorrisi,
raccontava bugie a chi lo ascoltava,
cantava promesse, gioie…
e illusioni d’amore.
T’ho salutata
Con uno sguardo
Da fine giorno
Con i miei occhi
T’ho accarezzata
Grida la pelle
Perché la tocchi
La bocca vede
Quello che celi
Ma che il tuo cuore
Di certo chiede
Si perde tutto
In un abbraccio
Che poi il distacco
E’ come un lutto
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