Io graffio e scalcio.
Non chiamatemi pazza.
Io voglio essere rispettata.
Io amo le persone,
anche se gocce di sangue
hanno violato il mio corpo,
lasciata da sola con il mio dolore.
Ho bisogno d’aria buona, di andare e restare e rotolare e lavarmi, non chiamatemi pazza.
Io amo la solitudine che separa le parole.
Io piango di nascosto.
Ho gambe muscolose e un culo che mi piace.
Io sono donna.
Nessun uomo capirà il mio dolore.
Io mordo, io soffro, io regina, io amo.
Ho affondato trenta centimetri di combattuta lucidità nella terra ferma
ma la mia imponenza si innalza a centonovanta centimetri.
Ho smussato dieci centimetri di premurosa saccenteria
ma adesso le mie curve risultano anche più pericolose.
Ho affettato millecinquecento chilometri di lotte intestine
ma si sono ricomposte con dieci numeri misti, quelli giusti.
Ci ho messo tempo ad aspettarmi e adesso che mi sono raggiunta ho ripreparato i bagagli.
Se c’è un affare più pulito di questo indicatemene il percorso su mappa con le bandierine,
che lo scanso.
Per troppo tempo spettatore distratto
di questo cerchio di voci inascolate.
Ombre e malinconia hanno coperto la scena.
La polvere ha fatto prigionieri anche i sogni.
Ma uno spiraglio di luce
cuce il filo interiore
di un nuovo domani.
Soffiò delicatamente sul pube,
nuvole che giravano nei cieli si posarono silenziosamente.
Erano cirri di neve calda,
lambiva la lingua, tratto di pelle tesa.
Carezzava mani che toccavano cielo.
Erano nuvole dei giorni contati, nuvole che prendevano l’età.
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