Quante rughe sopra lo specchio
quando il vento increspa il lago.
Dal vuoto, foglie come turbine,
salgono dall’inferno
a cacciare il paradiso.
Sopra il serpente di cemento,
noi, pulviscoli anatomici,
cacciati e spinti,
fuggiamo
tra l’ira del bosco
che ulula e piange.
Singhiozzi di foglie ferite
cadono,
su di noi e sull’asfalto.
Scrivimi dal prossimo
amore che avrai.
Senza alcun impegno.
Ti risponderò dal mio,
raccontandoti di ciò
che ancora ci unisce.
Giocavamo tra le case di quel paese sul mare, bianche di calce, di un bagliore che solo l’ombra dei vicoli alleviava; correvamo per le strade di ghiaia e sui lastricati di pietra bianca, cavata tra i pascoli lì intorno, coperti, durante la transumanza, dal mare bianco delle pecore abruzzesi; la luce si moltiplicava e rimbalzava su quelle pareti fino agli sfondi, azzurri di mare tanto chiari da confondersi col bianco.
Ti rifugiasti ansante, tremante ma altera, in quel terrazzo a picco sulla marina, dove i bianchi panni stesi garrivano come bandiere.
Quando, impazienti, ci strappammo i vestiti leggeri, mi abbagliasti con il bianco dei tuoi seni e del tuo ventre, impronta dell’inverno trascorso, pronti a farsi baciare dal sole e da me.
Ci rotolammo nelle grandi cesta delle lenzuola giocando e ad un tratto seri, amandoci perdutamente.
Nella luce meridiana soltanto i gabbiani bianchi ci videro fonderci in un unico organismo.
La decisa macchia rossa, nel concerto di quei bianchi corredi ricamati per le spose, fu la traccia del tuo coraggio e la sfida del nostro amore.
Tappeto
di carne umana
disteso
sull’acqua
dove il sale
penetra
nelle piaghe
straziate
delle nostre anime
rinnovando dolori.
Attende
cupo
il mare
come mostro
altri olocausti.
Scrolla la corolla
il fiore
accarezzato
dalla brezza mattutina
lasciando scivolare
a terra
petali a tracciare
un sentiero
palpitante
di passi in fioritura.
Bianca neve scricchiola sotto la mia discesa veloce.
Felice, libera, sicura, io ti venero perchè poco altro mi fa sentire cosi.
Ho bisogno di te e ti sogno quando non ci sei, a coprire un mondo che grazie al tuo candore, sembra pulito, luccicante, perfetto.
Dicono sia passione, io non so cosa sia, so solo che al giusto momento, mi sciolgo come fai tu.
Chiudo ogni spiraglio
Narici serrate
a trattenere
forse
l’ultimo respiro
Acqua tiepida
mi culla
come grembo materno
che solo sa amarmi
Occhi ora aperti
fissano
una vita che scorre
tra bolle inconsistenti
liquidi amniotici
umori cristallini
e cristalli fatti a pezzi
per sbaglio
e per fortuna
Non posso affondare
Il marmo mi circonda
ma dentro me sì
tutto affonda
niente scivola
solo io
Riemergo
Respiro
Non era l’ultimo
Massimo Palladini è nato e vive a Pescara; lì svolge da un gran bel po’ la professione di architetto.
Tra la polvere della calce ed il fruscio delle scartoffie, cerca momenti di creatività dentro e fuori dal mestiere. Tra questi, anche delle scritture rapide, d’occasione, nelle quali fustiga, scherzando, i costumi o annota stati d’animo ed impressioni.
La sua passione forte è l’arte figurativa che frequenta e, un po’sperimenta; ma anche il mare è un suo amore che l’ha accompagnato fin qui.
Dicono che Folk e Rock
ti abbiano generata,
di una rotta inesplorata ti sei invaghita
Quando il suolo di Woodstock e della Luna
non era ancora stato violato
Tu già cavalcavi gli astri, solcavi le stelle
al ritmo acido delle chitarre
Di conquistare il cuore
non te ne fregava niente
bramavi solo la mente
regalando scintille
promettendo diamanti
e salti, sempre più alti
Anche nel sole mi volevi portare
dalla realtà… emancipare
dalla personalità… liberare
e nell’universo cosmico proiettare, me e la vita mia.
PSICHEDELIA,PSICHEDELIA
Lentamente
Cresce
Tra noi
Le lacrime
Tue
Asciuga
E serba
I silenzi
Miei
Feroce
Brucia
Sfinendoci
Annunciando
Della notte
Il gelo
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