Cadono le foglie come ali di angeli vecchi, bruciacchiate come pane al forno, profumano di pioggia e terra bagnata.
Cadono lentamente, in un volo insensato che dura un pò; quel volo senza scopo segue il filo ribelle dei pensieri che si intrecciano a ricordi prepotenti bruciati di nostalgia. Foglie brunite che incantano con una danza inattesa ma sono morte. Cadono come soldati al fronte, come vite spezzate troppo presto o logorate dal cammino.
Cadono in questa stagione incerta come la vita e ricordano il senso dei primi grigiori del capo, dei solchi sul viso, dell’inverno incipiente che tutto ferma in un solo ciak in bianco e nero. Sono morte e cadono, prive di anima e vita, danza d’inerzia, di ineluttabile gravità.
E noi a guardare, e senza capire, a calpestare quello che vogliono dire.
Sta arrivando il momento giusto
non più caviglie calpestate
solo casquet emozionati.
Basta tormenti di pellicine
tempo di sorrisi e melagrana.
Ora che sei dittongo della mia vita
oltre le rughe godo la tua bellezza.
Mi abita il sorriso in ogni suo forma,
ne sono colmi i miei occhi, la mia bocca, il mio cuore,
i miei passi sicuri mentre attraverso, incerta, la vita.
Contraccambia, timidamente educato, il mio profondo sentire.
Vola alto, bacia la luna, socchiude gli occhi al sole,
mi scruta attento. Gli cade una lacrima.
Sento la sua carezza lieve, abbasso gli occhi,
è un attimo.
Nascondo il dolore e sorrido,
ancora.
Picchietti tediosa su vetri appannati
ci fai prigionieri di pensieri annoiati.
Danzi beffarda su tetti supini
inzuppando le chiome degli alberi chini.
Sgorghi impetuosa da un cielo arrabbiato
prendendo a secchiate il passante avvilito.
Affili le grinfie nelle nuvole gonfie
e vieni giù lesta a guastarci la festa.
Per noi che sognamo con tutto il cuore
terre assolate e mandorli in fiore
invadente compagna
sarai alfin scalzata da un cielo azzurro
e da una calda risata.
Dove lavoro c’è un branco di cani randagi che terrorizzano il paese.
Con tutto quello che si sente in tv, di persone dilaniate e sbranate dai branchi, la gente scappa, urla e protesta e vuole abbatterli.
Una sera facevo il turno di guardia (sono medico) ed ero fuori a godermi il freschetto.
All’improvviso dal cancello entrarono 5 cagnoni, tutti grossi, tutti randagi; si avviarono subito verso di me a passo lesto. Io rimasi impietrito . Non avrei avuto il tempo di entrare dentro. Stetti immobile . I cani mi circondarono e mi annusarono. Sudavo freddo, avevo paura che il mio minimo gesto scatenasse il loro attacco. Il più grosso, quello che sembrava essere il capobranco, mi guardò fisso negli occhi, poi col muso spinse verso di me un cane tutto bianco e molto smagrito. Questi aveva il dolore negli occhi, lo si vedeva subito.
Molto timidamente e con la coda in mezzo alle gambe mi poggiò il muso sulla gamba, guardandomi con occhi imploranti. Azzardai una carezza per farmelo amico e gli diedi un biscotto che avevo in tasca.
Lui cominciò a leccarmi le mani e più lo accarezzavo, più mi strofinava il muso sulla gamba.
Voleva che continuassi, voleva le mie carezze.
Gli altri cani si misero a cerchio e si sdraiarono per terra, come se aspettassero qualcosa.
Solo il capo branco si avvicinò al cane bianco e gli leccò l’orecchio. Continuammo così per un bel pò, io lo accarezzavo, il capobranco lo leccava e gli altri seduti a cerchio.
Fino a quando anche il cane bianco si sdraiò e fece come per dormire.
Dagli ululati strazianti degli altri cani capii che era morto.
Io rientrai dentro e loro me lo permisero.
Rimasero attorno a lui tutta la notte, ululando di tanto in tanto.
Quel branco mi aveva portato un cane moribondo per fargli avere il conforto di un umano prima che morisse.
I cani hanno bisogno degli uomini e delle loro carezze.
Da allora la parola branco non mi spaventa più.
È nelle sere di cielo limpido e ventoso che si comincia a vedere più chiaro anche in sè stessi, e molto viene a galla, molto di poco pulito.
Si avvertono più crude le assenze – tu, dove sei? Ti avevo creato per restare ad abbracciarmi, come hai potuto disattendermi? – ma al tempo stesso sai che non è importante: quel dolore lì non fa più male, e se lo fa è una finta.
È una fessura sorda, riempita di lucidità e sensazioni nette, di abitudini nuove – sei talmente cambiata che hai deboli ricordi di ciò che eri. Aggrappata, era un buon aggettivo.
L’aggettivo di oggi è “vigile”, oppure “ricettiva”, nel senso di animale all’erta.
Ti scorrono risate nella gola, e subito dopo stringi i denti di paura o di rabbia, poi non puoi fare a meno di accarezzare un gatto.
Te ne fotti del senso, questo è il bello…
L’idea di direzione è sparita per sempre – qui, lì, là in fondo: segnali appaiono solo all’ultimo istante – credevi fosse un danno, sbagliavi, è il caos normale.
Così ti abbracci, nella sera ventosa, e in questo abbraccio molti sono riuniti, in quell’idea strana di amore che t’è venuta ora.
Così dici “ti amo” a tutte le benevole presenze che ti affollano e che ti invitano a vivere ancora, ancora ed ancora.
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