Stamattina mentre andavo al lavoro a piedi, una donna dietro di me arrancava, ticchettando coi tacchi sull’asfalto.
Mi dava fastidio, quando mi son girato per vedere la fonte del suono, ho scoperto che, tra l’altro, oltre ad emetter quei fastidiosi e ritmici tac tac tac, aveva un ghignetto soddisfatto sulla faccia che mi ha dato immediatamente fastidio.
Ho impugnato la Stratocaster che penzolava dietro la mia schiena e vedendola passare, deciso di suonare due note per lei.
Ipnotizzata dalla mia musica, lei, ha attraversato sbadatamente la strada, senza accorgersi dell’imminente sopraggiungere di un autobus.
Accorrevano urlando i passanti, il grosso parabrezza dell’automezzo era cosparso di pezzetti di cervello, i passeggeri sbraitavano, vomitavano, sanguinavano per il colpo subito, l’autista era esterrefatto, io, immobile, gustavo la scena nell’attesa di poter fare qualche cosa; cadevano dal cielo degli antiemetici, salutati come una manna dai pedoni, tutti ingialliti dalla macabra visione.
Ho ripreso a strimpellare la Fender; Joe, l’autista, si è ridestato dal suo torpore e noncurante, ha acceso il tergicristallo con ancora attaccati gli occhi azzurri della vittima e delle ciocche dei suoi lunghi capelli biondi. Aveva dipinto, così, il vetro, con il sangue della sventurata.
Io mi sono incamminato suonando, Joe ha innestato la marcia e spinto a tutto gas l’autobus di linea in direzione del Pier 35, ha preso il ponticello di legno che portava al mare, urlando a squarciagola e dimenandosi, contrapponendosi agli attacchi degli allibiti passeggeri, ormai in preda al panico.
A quel punto, sul mio cammino ho incontrato Kurt, un collega della concorrenza e ho smesso di suonare.
L’autista ha inchiodato il mezzo, ho sorriso e salutato il mio giovane amico. Gli ho chiesto dove stava andando e il tempo tutto intorno si è fermato.
Kurt mi ha detto di questa turnee in Asia col gruppo, mi ha detto: “Jimi, c’è molto lavoro per noi da quelle parti”. Gli ho risposto che conoscevo la situazione ma purtroppo il mercato per noi da quelle parti era tabù, troppi innocenti e pochi cattivi.
Joe era ad un metro dal baratro, ho ripreso a suonare, ha schiacciato l’acceleratore, il tempo ha ripreso a correre.
Ho visto almeno 15 persone galleggiare vicino al molo e altre 17 sono rimaste incastrate sul fondale insieme al bus.
Poteva bastare, ho pensato, ma continuavo a suonare.
Joe è stato l’unico superstite.
Sono intollerante di prima mattina.
Osservare la felicità altrui, l’ottuso buon umore, la fiducia incrollabile nella vita, mi dà sui nervi, la mattina.
In fondo sono un povero diavolo di città, ho uno stipendio fisso, anche se il lavoro non è sempre rose e fiori ma qui a Seattle si vive bene in fondo.
Man mano che le ore della giornata si accumulano, divento più ottimista e per l’ora dell’aperitivo il mondo è un posto in cui vivere, pieno di gente simpatica con cui vale la pena condividere i tanti o pochi anni che gli restano.
Magari gli suono una mia canzone…
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