Ad occhi chiusi vedo la mia terra circondata da due mari, bruciata dal sole, sferzata dal vento; un paese fatto di case bianche, incantato dalle cicale, quando la luce calda e abbagliante favorisce il riposo.
Vedo un bambino che sfugge alla stretta sorveglianza della nonna, entra furtivo in cucina, impugna un lungo coltello ed ingaggia un duello con il fascio di luce che penetra dal lucernario dividendo la stanza, per il resto in penombra.
I suoi fendenti, scuotendo l’aria, fanno danzare il pulviscolo e trasformano quella colonna di luce in un magico caleidoscopio…
Qualcuno mi chiama, apro gli occhi, un altro bambino mi fa: “papa, papa! Vuoi entrare nel mio mondo segreto?”
L’ amore è ignorante, non sa.
non conosce il Natale nè la miseria,
i chilometri d’ asfalto, le ore che lo aspettano,
non vede, non sente
a volte non ha nemmeno fame.
Parte e basta.
Dorme poco se non trova un rifugio.
s’ affanna anche per nulla
e nulla ha da imparare, che tanto non serve.
Così guardo il passaporto che mi ritrovo tra le mani
pensando che in Sudafrica non ci sono mai stata, che i corsi d’inglese serviranno anche a poco e non ci sarà tacco che tenga
in un luogo dove crescere di per sè
è una lotta infinita.
Badili e sudore, poi i calli alle mani, l’acqua bollita e polvere e zanzare
e piedi a cui insegnare che una bicicletta scassata i miracoli li fa
e aghi a cantar tra le stoffe e aghi a cantar nelle braccia che morire del niente,
non dovrebbe più esistere.
Quattro nodi al mio spago ancora non bastano.
Perchè l’ amore si…
è ignorante, non sa.
Ho sprecato notti insonni ad attendere albe.
Giorni inermi, in attesa di tramonti.
Ingiuriavo il buio sotto cieli stellati
dissacravo la luce per nascondermi.
Impotente,
chiusa,
fuori da me stessa,
fuori dal mondo.
Fuori di testa.
Duro il rientro. Travagliato, penoso.
Rinascita dolorosa, più di un parto mal riuscito.
Lacrime come fiumi, pugni contro i muri…
Tante le cicatrici,
i segni indelebili,
dolorosi,
fruttuosi
ricordi.
Ed eccomi ora:
vorrei non dormire mai, per godere di
cielo
luna
stelle
albe
tramonti.
A più non posso.
Al compimento di ciascun evento ,
di ogni prodigio,
un misto di paura e dolore mi assalgono.
Il terrore della fine mi agghiaccia.
Un istante.
Attimo schifoso ma fecondo.
Arricchisce l’incanto,
le emozioni del successivo.
Ore a parlare
a scrivere di noi.
E poi lasciare che il tempo fugga
per accorgerci che
le nostre braccia sono vuote.
Agitare il corpo
a cercare aria
per allungare un respiro
che avveri l’amore.
Ho scavato dentro questa colpa,
accusata e condannata
in contumacia.
Come presentarmi
se di questa colpa vivo,
se di questa colpa muoio?
E muoio tra le tue braccia
dove tutto ha trovato un senso.
La vita lo ha.
Ho scavato dentro questa colpa
e non ho più alibi per te,
perché tu non ci sei,
perché tu non pagherai,
perché io dentro di te
non sono entrata mai,
spettatrice,
naso contro vetro,
come bambini incollati a una vetrina,
con l’acquolina in bocca.
No, non ho più alibi per te
e, amandoti,
sconterò io condanna e pena.
Il vento prende a schiaffi il mare
Granelli di sabbia
abbandonano luoghi noti per altre possibilità
Come loro
ci accingiamo a far altro, essere altro
Planiamo su nuove realtà
con il petto denso di vita e
nelle orecchie
la dolce nenia
delle sopite onde.
La goccia di rugiada
ruba il colore
alla foglia
che bagna.
La Luna è ferma,
falce trafitta
dagli occhi
dello stagno.
Eppure l’albero
sarà presto
ancora in fiore,
oltre ogni
immota acqua,
oltre ogni
lunatica foglia.
Desidero per te
il miglior tempo.
Tempo per pensare
Tempo per te stesso
Tempo per essere contento.
E ti auguro tempo
perche’ te ne resti.
Per crescere
e sperare nuovamente
di amare.
Se avrai miglior tempo
per la tua vita
saprai perdonare
il tuo tempo perduto.
Ancheggiava.
Vestito stretto, che lasciava poco all’immaginazione.
Seni che sembrava traboccassero dalla scollatura.
Sentiva gli sguardi degli uomini addosso, che oscillavano fra seni e gambe, incerti su dove fermarsi ad osservare tutto quel “bendidio”.
Ormai era “bollata”. Ma lei, Angelica, aveva una preda precisa: il vecchio prete.
Certo, lui le impediva di entrare durante la funzione “così conciata”. Ma intanto la guardava.
Angelica sapeva che, prima o poi, sarebbe caduto.
Nessuna fretta: sperava solo che Iddio non chiamasse il prete prima di lei.
Così iniziò a entrare in chiesa la sera, ad aspettarlo al confessionale.
Gli raccontava di amplessi…
Come previsto, lui cedette: le mise le mani addosso, la portò nella sagrestia.
Angelica si lasciò spogliare, poi prendere; ansimava l’anziano parroco.
Lei, incollò la bocca a quella di lui impedendogli di respirare, vincendo lo schifo che,
solo per un attimo, le aveva accapponato la pelle.
In pochi attimi, il prete divenne paonazzo e con un rantolo, portò le mani al cuore.
Angelica toccò il polso del prete: aveva fatto quello per cui, un anno prima, era ritornata da Roma.
Uscì nel freddo della sera, imboccò il viale coi platani, valicò il cancello e si inginocchiò.
La scritta recitava “20-12- 1985 / 21- 1 -2002”, “Riposa in pace.
“Ho fatto tutto”, si disse.
Le lacrime bagnarono il terreno consacrato e Angelica si sentì in pace.
Per la prima volta, dopo la morte per aborto procurato, di sua sorella.
Poi s’alzò e si diresse verso la scritta che campeggiava bianca e blu: “Polizia di Stato”.
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