“La donna del quadro” sono io.
Ho male ancora, il mio corpo immobile sotto lo sguardo senza amore del “grande artista”.
Quel corpo che doveva rimanere così, privo di vita, si è ribellato. Perché non lo so.
La frustrazione, la rabbia di essere trattata come un oggetto o peggio ancora, come un pezzo di carne dal macellaio.
All’inizio ero lusingata, l’artista mi aveva scelta, sarei stata in eterno sotto gli occhi di tutti; ma il disincanto è arrivato presto: mai un saluto, una parola gentile, niente: ero solo un’immagine nel suo sogno, un supporto, un’idea creata dalla sua mente. Non esistevo veramente per lui.
Ore e ore a posare nel suo mondo, per finire come colore sulla tela.
I crampi, il freddo e la noia hanno avuto il sopravvento, ho cominciato a tremare. All’inizio qualche fremito, poi davanti alla rabbia dell’artista, sono iniziati gli spasmi: credevo di morire, mentre lui urlava: ” portatela via subito!”
Non sono più tornata, ma ancora ho male.
So che la tela ha riscosso un grande successo, uno stile nuovo, dicono.
L’ha intitolata “dolore di donna”.
Azzeccato, direi.
Nella prossima vita
Voglio essere una vetrina del centro
Per nutrirmi solamente
Degli sguardi sognanti
Dei bambini mentre scrutano i balocchi.
Sassarese analfabeta di ritorno del 1966. Erigo muri per saggiarne la solidità. Amo costruire presepi, tende degli indiani, sbucciarmi le ginocchia, fare il bagno sotto la pioggia.
Più volte ho perso le fiancate dalla lambretta, ma le ho sempre ritrovate appena in tempo per godere del respiro di chi amo. Convinto che “siamo da dove veniamo”.
Eccidio di vento
fogliame impazzito
negativi della memoria.
Scivola il tempo
dentro una lacrima.
Scivolo dentro
l’assenza di te.
Veli,
sale sulla pelle
e non si asciuga
mai,
borda la prora che
esce dall’onda
per un profondo
sospiro e breve,
dopo s’immerge
ancora,
per respirare
tra le braccia sue.
Sole sbiadito
nascosto avanti
al cielo, dietro un
alone e non mi vede.
Senti passare la mia
provenienza e brandeggi
le tue vele, per il bisogno
di un momento.
Mi hai preso tutto,
dove é tutto o niente.
Io ti ho investita nella
balìa delle correnti.
Sono tornato per
mano di un ciclone,
per spingerci al destino
insieme, ma fu’ tempesta.
Adesso, oltre la tua
barca, porto con me
la sagoma tua, invisibile
agli occhi di altri venti.
Ora che sento ancora
addosso le tue vele,
senza sfiorare chi
ne ha bisogno,
da qualche parte
andrò a morire.
Facciamo finta che la vita è bella
Come una risata
O un mattino di sole senza sangue
E senza morte.
Facciamo finta che
Una risata cristallina
Brilli nei tuoi occhi
E il sorriso delle labbra
Si muti in un bacio profondo
Che raggiunga il cuore
E che i cuori si uniscano
In un sol battito
Forte, assordante.
Facciamo finta che
abbiamo guardato
Il cielo stellato insieme,
Abbiamo cercato il grande carro e poi il piccolo
E raccontandoci di noi
Abbiamo cercato Dio, che però ci malediceva.
Facciamo finta che quella notte abbiamo
Dormito insieme, senza lasciarci la mano
Neanche un istante
Con la luna piena attraverso il balcone
A illuminare il nostro amore
E i brividi sulla pelle sudata.
Facciamo finta che ci siamo amati davvero
Nel tepore di un’estate di tanti anni fa,
E tra i boati di un vulcano inquieto,
Sotto l’infinito,
I nostri baci che sembravano veri.
Gli sguardi si incrociano
timidi sotto gli occhiali
nella rumorosa cadenza
di una carrozza di un treno.
Parole e gesti
sono solo preludio
a ciò che il destino
ha già scritto da tempo.
Quel bacio in sospeso
come un conto da pagare
che in lenzuola stropicciate
troverà inevitabile saldo
… e tornarono le gole mozzate
e tornò il sangue
a correre
su lame ormai opache
e tornò il medio evo
che forse
mai era passato …
… e tornò l’arroganza dei ricchi
dei potenti
la condanna
a perdere il lavoro
a perdere la vita
così senza ragione
senza giusta causa
per solo diletto dei forti.
E tornò il medio evo
che forse
mai era passato.
Ed io vile qui , spento
deluso
senza poter cantare
senza saper lottare
silenzioso
volgo
il mio sguardo attonito
all’Eterno
che bramo sempre
Cosi’ stasera ho impugnato le forbici,
quelle grandi, perchè le cose vanno fatte bene
e se devi sforbiciare un cuore devi farlo senza pietà.
Musica in cuffia a mille, ché tanto…null’altro devi capire.
E via di corsa, ché il tempo viene rubato e la gente muore lo stesso.
Niente luna,
niente stelle africane,
stasera si corre fino a perdere il fiato.
E nulla basta,
nulla riempie.
E ruggisco nervosa,
ché leccare stavolta non serve a nulla.
E la bestia s’incazza e ne fa fuori degli altri, a decine direi,
passati per caso,
troppo leggeri
per tenere il passo;
quindi via via via! Ché stiano lontani quei sogni,
ché se solo ci penso mi vien mal di stomaco.
Spengo la musica
ripongo le forbici, i sogni da nulla vanno ammazzati,
quelli troppo pesanti s’affossano da soli,
quelli sospesi aspettano solo il coraggio di una mano tesa.
Ho fatto una strage
ma qualcosa è rimasto
un po’ sa di buono
questo sogno bastardo,
che come il mio cuore
rimane a mezz’ aria.
25/9/1972 a Torino, sono uno scrittore che nel tempo libero lavora in una piccola scatola cinese della grossa azienda nazionale privatizzata che costruisce aerei che, si spera, non debba pigliare mai.Il mio obiettivo a breve termine è il licenziamento in modo da attingere agli 8 mesi di sussidio di disoccupazione, per i 50 anni spero di riusicre a svegliarmi a fianco alla donna o alle donne che amo, magari in riva al mare. Sogno colorato, quasi mai in bianco e nero, mi piace suonare e cantare ma sono scarso in entrambi i campi.
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