A cento a cento
sono passati gli anni.
Mi accorgo ora
che nulla è cambiato
Accenni di musica,
la stessa di sempre.
Il fuoco s’accende
al solo sentirli.
Note eccitate
allertano i sensi.
Vedo un rumore.
Gusto un odore.
Ascolto una forma.
Rivivo il passato
coniugando il presente
Lego il mio amore a docili suoni.
“Sfiga”
Mi svegliai con un terribile mal di testa e aprendo gli occhi, vidi luci soffuse e un trespolo, da cui pendevano sacchetti e tubi di plastica.
Portai le mani alla testa e sentiì che era bendata.
“In ospedale? Che ci faccio qui?” Pochi istanti di confusione e ricordai.
Tutto era cominciato quando mia suocera, con un ghigno malevolo e satanico, mi aveva fatto gli auguri di buon compleanno.
“Ma se mancano settantuno giorni ?” Le dissi; al che lei rispose: “Dieci settimane e un giorno” e andò via, lasciandomi pensieroso.
Il Vudù aveva funzionato.
In quel periodo mi era gia’accaduto di tutto: perso il lavoro, mia moglie mi aveva messo alla porta, l’automobile rubata
e Equitalia aveva sequestrato l’alloggetto al mare, che tanti sacrifici era costato e dove avrei voluto rifugiarmi.
Giunto a Vernazza, scesi dalla corriera con la piccola valigetta, dove avevo rinchiuso le mie cose, mi recai al molo, dove stava ancorata la mia barchetta e non la vidi: era affondata con l’ultima forte mareggiata.
Rimasi sul molo e sedetti su una bitta, senza accorgermi che era sporca di grasso e nafta; erano gli ultimi pantaloni di lino bianco che avevo.
Rimasi seduto, la valigetta ai miei piedi e pensai: “Manca solo che una balena m’inghiotta! Tanta sfiga neanche Giona la ebbe”.
Il cielo si fece scuro, nuvole nere e lampi; cominciò a piovere a dirotto.
Io, allora, salii sulla bitta, sfidando il cielo e sperando che un fulmine mi colpisse, ma scivolai sul grasso e cadendo, battei la testa.
Ora ricordavo: dieci settimane e un giorno, oggi era il mio compleanno!
Si aprì la porta ed entrò una bellissima donna, con indosso un camice da dottore. Rideva.
Io ricordai quel sorriso: “ Rita, sei tu? “. Mia compagna all’università (la ricordavo magrolina, nervosa, brufoli in faccia, grossi occhiali da vista. C’era stato un solo incontro con lei e un bacio); ora, una stupenda donna.
Lei mi rispose sorridendo: “Si sono io, ti ho in cura nella mia clinica. Bella testata! Che ci facevi sul molo durante la bufera?”
Raccontai…
Alla fine lei mi disse: “ Io vivo sola, domani, quando ti dimetterò, puoi venire a casa mia.” “Avremo tanto da raccontarci, potremo ricominciare” aggiunse, facendo le corna per scongiuro. “Ah! Dimenticavo di dirti che i pantaloni sono rovinati, la tua valigia e´caduta in mare, ti ricevero´ nudo come Adamo. In giardino ho un bellissimo albero di mele” e, chiudendo la porta: “Oggi è il settantunesimo giorno, il tuo compleanno. Per favore, non bruciare la clinica!”.
Brividi a parlare di noi.
Siamo qui, uno a contenere l’altro.
Svuotarci di tutto per contenere noi.
Leggerezza.
Sensazioni oltrepassano la follia,
rendendo limitato l’infinito.
Il nero e il bianco,
insieme e distinti,
non formano il grigio.
Nessuna paura.
Non esiste un domani da temere.
Carezze solcano mari,
respiri a fare vento,
ad allontanare nuvole.
La pioggia non ci bagna,
il sole, impotente,
ci scalda ma non brucia.
Il dolore ci sfiora ma
subito sconfitto, svanisce.
I tuoi occhi del mio colore
i miei della tua gioia.
Amore? Troppo poco.
La valle delle lacrime, era pietosa, quasi funesta.
Il grigio fu padrone
e nulla oramai poteva cambiarla.
Sopravviveva tra bisbiglii, ronzii e dolori…
Bastó un sorriso testardo,
irruento e raggiante, all´ improvviso,
per ridipingersi di azzurro, d´ oro e decoro.
C’era una volta un re.
Lo videro, occhi sollevati
e sguardi chini,
spalle piegate alla zolla.
Passava, il re, nel suo manto
a raccogliere senza semina.
Evviva il re.
Labbra tese, nello sforzo salato del sudore.
E fu terra sollevata a pugno chiuso e sangue,
senza attesa di libertà.
Ma c’era un re, c’è ancora.
Carta moneta sonante e macero,
come la carne stritolata al montaggio.
Catene al polso.
Evviva il re.
Ancora nelle labbra e nella voce
confusa, nel frastuono antico
della piazza in festa.
Processioni e inni alzati immobili
in schermi di vita rubata.
E catene a trascinare il passo.
Morte al re e al suo suddito applauso.
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