Sintogara “Vi presento” Maggio 2017

27/05/2017 da vittorialices

Francesco Fontana

 

 

 

 

Primo classificato 

“Vi presento Sara”

di
di Maria La Bianca

Ha acceso la TV. Quando torna a casa accende sempre la TV. Non guarda nemmeno le immagini che scorrono sullo schermo e percepisce appena le voci e i suoni che le accompagnano, tiene basso il volume. Si sposta da una stanza all’altra della casa ripetendo i gesti con puntuale successione. La TV e la consuetudine riempiono gli spazi vuoti nella casa e nella testa. Stamani ha indossato il tailleur grigio. Stasera appende la giacca, ripiega la gonna sulla sedia accanto al letto. Le scarpe, quelle nere col tacco basso e il cinturino intorno alla caviglia, le ha tolte nell’ingresso, appena entrata. La camicetta bianca finisce nel lavabo, immersa nel tepore di una nuvola di sapone delicato. Si è infilata un ampio camicione sull’inutile completino di lingerie e si appresta a mettere in forno la cena. Passa prima dal bagno, però. Raccoglie i capelli in una crocchia improvvisata e deterge lievemente il viso con un paio di batuffoli di cotone impregnati di struccante oleoso. Intanto il forno è già caldo e accoglie lo sformato scongelato al mattino e preparato ancora prima in monoporzioni insieme ad una discreta varietà di cibo per la settimana a venire. Un piatto, un bicchiere, una forchetta. I tovaglioli sono già lì, sul tavolo, insieme ad una tovaglietta di plastica su cui la torre Eiffel manda saluti da un tempo lontano. Sara è stanca. Sara ha lunghi capelli neri come gli occhi, spenti. Gambe troppo snelle per il peso della vita poggiato sui fianchi. Gambe perse nella memoria di passi di danza e applausi, promesse di vita sollevata senza peso e raccolta in piroette veloci. Gambe che presto non serviranno più come tutto il resto. La sentenza è arrivata troppo presto, in poche righe di referto sulla carta intestata dell’ospedale. Mette il piatto sporco nell’acquaio, riempie un bicchiere, manda giù le compresse e si lascia cadere sul letto. Chiude gli occhi e aspetta il sonno. Spera non tardi, non ha mai saputo aspettare. Da bambina apriva le finestrelle del calendario dell’Avvento tutte insieme e chiedeva ogni giorno se fosse già Natale. Aveva rincorso il tempo come se fosse sempre troppo e adesso che ne resta così poco aspetta. È bella Sara mentre dorme e ha lasciato la TV accesa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Secondo classificato

Vi presento Honey
di Sofia Maffei

Scrive il suo vero nome solo sulle bolle di consegna. Per tutti, lei è semplicemente Honey, la ragazza del miele, o “di” miele, come affermano molti. È intorno alla trentina, ma sembra più giovane, un cosino piccolo ed esile, dalla pelle dorata e i capelli biondi che, quando cammina, sembra volteggiare come una delle sue amiche api.
La passione per i piccoli insetti a righe è nata con lei o, comunque, subito dopo. Era nella culla, in giardino, quando un’ape le si era posata sulle boccuccia, dandole un bacio lieve, con grande spavento di sua madre. Da quel momento, quando è stagione,
è consuetudine che le api le ronzino intorno o si prendano un attimo di riposo,
adagiandosi tra i suoi capelli.
Probabilmente sono state loro a suggerirle di metter su il suo negozio, dove il tema dominante è il miele. Sull’insegna in ferro battuto c’è una grande goccia di vetro, che la sera si illumina e fa venir voglia di una fetta di pane e burro, da addolcire con miele profumato.
Entrando, ci si ritrova in un ambiente vittoriano: tavolini coperti da tovaglie all’uncinetto, piattini in porcellana ricamata, barattoli di miele di tutti i fiori possibili e dolcetti, che lei stessa prepara ma, anche, formaggi piccanti. Il miele accompagna bene tutto, anche il salato delle lacrime e fare una visitina ad Honey è terapeutico.
Lei sa sempre cosa occorre per curare un cuore ferito o un qualunque dispiacere. Prepara tisane con fiori d’ibisco e di lavanda, che serve con muffin caldi al miele di nespolo, il frutto che matura a Primavera e, lei afferma, dona speranza.
I suoi clienti assaggiano e iniziano a parlare, rivoltandosi il cuore, senza fermarsi finché non è libero. Lei interviene poco. Sa che la soluzione è già presente col problema stesso e basta solo fermarsi ed esaminare la questione, trovando un attimo di calma e qualcuno che ti ascolta e ti sostiene, anche solo con un sorriso. E il sorriso di Honey rasserena gli animi.
Molti credono che sia una fata
o una strega buona.
Ma lei capisce la gente. Prima di fermarsi, ha girato il mondo e ha diviso il pane e il sale con popoli diversi. Ha imparato a percepire le urla che vengono da dentro e la musica dolce dei silenzi; sa leggere le parole nelle sfumature che acquistano le iridi e conosce i rimedi che la Natura offre per guarire dai suoi stessi mali.
Nessuno sa alcunché della sua vita privata. Lei apre il suo negozio alle otto del mattino, gestendo sostanziose prime colazioni
e chiude al pubblico alle diciannove. Non di rado, qualche cliente si attarda, perché ha bisogno di parlare, mentre Honey riordina, ma lei non rifiuta mai nessuno. Poi, di solito intorno alle ventuno, chiude il cancello sulla porta di vetro e.. sparisce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Terzi classificati, a pari merito

 

 

Vi presento Pina la pennina
di Valentina Carinato

 

Piccole cose con dentro un cuore
Era un giorno uggioso, un uggioso martedì scomodo perché scomodo era il posto in cui mi trovavo. Stavo aspettando il treno (in ritardo) dopo una corsa fatta per prenderlo. Ero tutta sudata, affaticata alla stazione di Padova. Una corsa inutile dato che dovevo aspettare un’ ora! Ed in quell’ora entrai in uno di quei negozietti coloratissimi, pieni di vassoi, quaderni…tutte cosette che non ti servono ma ti vogliono. Tutte cose irresistibili. E fu così che mi soffermai su una signorina. No. Una bambolina. Ma che dico! Una penna! Anzi, di più, mi soffermai su ” Pina La Pennina”. Piuttosto grossa come penna, inadatta ai lunghi racconti (mi suda la mano e scivola) ma vivace con quel vestito rosso a pois bianchi e precisa nel tratto. Il suo inchiostro non cola mai nemmeno con 40 gradi all’ombra, sorride e nel portapenne la trovo subito. Che emozione sedersi al tavolo a tarda sera scrivere poche dolci parole, perdersi in quel bel faccino. Lei era lì in quel negozio ad aspettarmi, a farmi cambiare umore come possono farlo soltanto le piccole cose. Piccole cose che hanno un cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Bobbò
di Mery Carol

 

Era un poveretto sfortunato
Nato malato
Tozzo e malandato
Provato dalla vita mai buona
Che niente gli aveva dato.
Lo chiamavano BOBBÒ
Per la sua gran testona
Che penzolava in avanti
A dire SI a tutti quanti.
Il suo incedere era tortuoso
Il suo parlare cavernoso
I ragazzi lo schernivano a frotte
BOBBÒ… BOBBÒ… BOBBÒ!
Ma nelle sue condizioni
Non dava mai risposte
Non aveva reazioni.
BOBBÒ non diceva mai NO
Sempre paziente
Sempre ubbidiente
Diceva sempre SI.
Alla fontana della piazza
Riempiva la brocca
Di acqua fresca
Per una tale ragazza
Che s’arrossava la bocca
E aveva un’amorosa tresca.
Giacché era sempre pronto
Una gazzosa comprava
Da mettere in conto
Alla guardia comunale.
E visto che ci stava
I soci del circolo culturale
Gli ordinavano il giornale
Lo mandavano alla posta
E BOBBÒ andava senza sosta.
Faceva il messo e il portiere
Al prete accendeva il braciere
E per un piatto d’avanzo
Quand’era l’ora di pranzo
Avvisava le signore della casta
Che era ora di calare la pasta.
Le bigotte salvavano la faccia
Lasciandogli un pezzo di focaccia
E lui povero BOBBÒ
non diceva mai NO.
Tutti lo chiamavano
Pochi lo ringraziavano.
BOBBÒ, ora non ci sei più
Ti hanno chiamato lassù
Ma io credo fermamente
Che fra le aiuole dei cieli
Tu lieve cammini eretto
In odorosi vaporosi veli
E al tuo passare gli Angeli
I Santi e gli Arcangeli
S’inchinano eternamente
E ti chiamano BENEDETTO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Caterina
di Maria Teresa Dotti

 

Caterina non amava i colori, nero l’abito, nero il velo che portava alla messa e nere le scarpe, tanto nere che nemmeno la polvere grigia ne alterava il colore. Caterina non amava i colori, guardava il cielo nero, nera la neve calpestata dai buoi, nero il fumo della stufa e il gatto, sul cuscino nero, era nero pure lui. Aveva i capelli lunghi Caterina, lunghi boccoli neri sullo scialle di lana nera. Nere le caramelle che succhiava fino a che diventavano sottili, creando un alone nero intorno alla bocca livida e anche le sue guance smunte parevano nere, oscurate dalle lunghe ciglia nere. Nera nella notte buia, pedalava sulla sua bicicletta nera, dove al manubrio dondolava una piccola borsa scura, tutti giuravano che era nera anche quella ma io so che era blu, blu come il colore degli occhi dell’uomo che amò. Perché Caterina amava gli occhi blu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritenuti meritevoli di menzione

 

Vi presento Victor
di Patrizia Benetti

 

Alto snello, capelli corvini, occhi di ghiaccio, indossa comode calzature in memory, jeans e giubbotto nero. Inforca spesso occhiali a specchio. Ha lineamenti regolari e gradevoli ma non sorride mai e gli occhi d’acciaio incutono soggezione. È un tipo solitario, alloggia nel modesto albergo di un piccolo paese di montagna. Nessuno sa chi sia, né per quale motivo si trovi lì. C’è chi dice che sia un uomo d’affari, chi suppone che si sia appena separato dalla moglie, o che stia scappando da qualcuno o da qualcosa. È davvero bello Victor, è sulla trentina e le ragazze tentano di attaccar bottone per sapere qualcosa sul suo conto e per strappargli un sorriso. In paese mesi prima si è consumato uno strano incidente e forse Victor è lì per investigare. Una ragazza bellissima, una straniera dai capelli biondi e dagli occhi azzurri come il cielo è morta. Stava scalando la montagna in compagnia del fratello e di alcuni amici ed è caduta da un burrone. Si dice che sia stata spinta. Lucilla e la facoltosa famiglia possedevano una villa in cui trascorrevano le vacanze. Ora è deserta. Nessuno vi ha mai più abitato. Si dice che sia maledetta, che vi aleggi la tormentata anima della fanciulla. Forse era la donna di Victor e lui sta morendo di dolore, medita la vendetta. Forse è uno sbirro. Comunque sia il volto dell’uomo è una maschera d’indifferenza. Pare che niente e nessuno lo interessi. Non vuole o non può scuotersi dal torpore che lo assorbe. A quanto pare è un abitudinario. Si alza tutte le mattine alle sette in punto, si concede una sobria colazione a base di caffè nero e cereali, quindi fa un’oretta di palestra e una lunga doccia rilassante. Verso le dieci va a leggere il quotidiano al solito bar, in attesa del pranzo. Si dice abbia sempre la pagina aperta sulla cronaca nera. Il suo volto impassibile diventa a tratti rosso e corrucciato. Inarca le folte sopracciglia nere e c’è chi giura di avere visto una lacrima scendergli sulle guance abbronzate. Chi è Victor, l’affascinante sconosciuto? Cosa lo tormenta? Oggi ha preso lo skilift ed è salito con gli altri turisti. Scia divinamente. Il suo volto è rilassato, sembra divertirsi. Respira l’aria pura dei monti e si lancia senza paura verso valle. Al ritorno però si sono perse le sue tracce. Nessuno lo ha visto rientrare e non è in motel. È quasi buio. Dove si sarà cacciato? Il giorno dopo in paese non si parla d’altro. La sua macchina è nel parcheggio ma di lui nessuna nuova. Trascorrono i giorni, le settimane, i mesi. C’è chi giura di averlo visto di notte davanti alla stupenda villa disabitata. Rincorreva una ragazza dai capelli biondi. Le loro risate riecheggiavano nell’aria. Victor era felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Lodovico
di Antonietta Fragnito

 

Rivederlo! Dopo quarant’anni, riconoscerlo tra la folla, chiamarlo a squarciagola e corrergli dietro su un paio di scarpe inadeguate, furibonde nel divorarmi i piedi. Ma niente, mi ha distanziato troppo nel mentre del mio stupore, della mia titubanza. Allora mi sfilo le scarpe, mi sbarazzo di certe cianfrusaglie appena comprate e della felpa che indosso e inizio a corrergli appresso dopo essere emersa da una canotta ibrida, bisex e sfrontata . Il mio cuore e’ una biglia, il pezzo logoro di un pallottoliere. Egli si volta: aria da vecchio ragazzo, più ragazzo che vecchio.
La folta criniera di un tempo falciata, ma gli occhi a spillo identici, il sorriso baluginante e i denti parecchio rovinati, ma questo è solo un insignificante dettaglio. E così torna ad essere il mio oggetto d’ amore, di nuovo, come un secolo fa. Lui scuote la mia anima, ha respiro diverso, braccia ardite. Mi pare che il suo corpo, non a caso, sia diventato più vasto. Credo che se potessi accedere ai suoi pensieri potrei sentirmi completa, bella, pacificata.
Certi incontri avvengono per delle ragioni irragionevoli, come piante spontanee o emozioni incontenibili. Non si sa se ritrovarsi è un po’ come rimediare a un destino distratto o se l’ incontro si reitera perché un racconto avvincente era monco, Una cosa è certa: è una seconda occasione, un evento straordinario!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Gilda
di Marilena De Giorgi

 

Gilda è il mio nome ed è l’unica cosa bella che ho avuto dalla vita.
Fu papà a sceglierlo, sfidando le convenzioni dell’epoca, che mi vedevano portatrice di quello della nonna paterna. Avrebbe preferito un maschio, ma, alla maleparata, diceva, che almeno si chiamasse come l’unica donna che gli aveva fatto perdere la testa.
Anche la mamma avrebbe voluto un maschio, solo per non sentire quel nome in casa sua. Per scongiurare questo pericolo, alimentava quotidianamente l’altarino sul comò, accendendo ceri alla Madonna, e contemporaneamente maledicendo “quella”.
Fra un litigio e l’altro, verso i 5/6 anni, capii che ” quella” era per papà: “la più bella, brava trapezista e femmina di tutti i tempi!”, e per la mamma “la più grande figlia di…di… e non continuo perché c’è la creatura!”, ed io non capivo perché la mamma della più bella, brava femmina non potesse essere nominata, ma non osavo chiedere il motivo.
Erano fidanzati quando il circo arrivò in paese,e allo spettacolo della domenica pomeriggio, i miei andarono accompagnati da tutta la famiglia. Lei era felice: era la prima uscita ufficiale dopo il fidanzamento, eppoi seduta accanto a lui un paio d’ore erano un lusso.I loro piedi si sarebbero sfiorati e forse anche le mani. Così fu finché si esibirono cammelli stanchi e disidrati, ma pur sempre esotici; pagliacci nani col sorriso stampato ma che a fatica strappavano quello del pubblico ed un paio di leoni che parevano colpiti da un’inquetante involuzione della specie, tant’erano addomesticati, ma c’era la musica e tutti avevano l’aria di divertirsi.
Lo stava guardando con amoroso sguardo, quando lei, annunciata come: LA GILDA, la vera, quella che anche gli americani ci invidiano, entrò in scena allo squillar delle trombe, cavalcando un cavallo col pennacchio, visibilmente ignaro di cotanto prezioso carico.
Seguì il suo sguardo come ipnotizzato dalle gambe infinite fasciate nella calzamaglia color carne, per proseguire sulla maglietta impaiettata, attillata e trasparente e poi fermarsi estasiato sul quel viso sfacciatamente sorridente. La guardava convinto che lei stesse guardando proprio lui, tant’è che s’era istintivamente e bruscamente allontanato dalla mamma.
Mia madre, che, da quel momento in poi, non guardò più la scena: non sentì gli applausi, le esortazioni ed approvazioni , talvolta al limite del volgare dei ragazzotti; non guardò le sue evoluzioni sul trapezio…si sentiva soffocare dall’umiliazione.
Il seguito è avvolto nel mistero. Non ho mai capito se fra i due ci fu qualcosa, sicuramente mio padre mise in pericolo il fidanzamento. So che dovettero intervenire le rispettive famiglie e che lui fu costretto a giurare eterno e fedele amore.
Nacqui in quel clima: femmina e Gilda.
Riuscii a deludere tutte e due: la mamma, per le ragioni di cui sopra, ma che raggirò, chiamandomi finché campò, col nome della Madonna, in contrapposizione alla figlia di…di…; papà, col passare del tempo invece si scordò di chiamarmi, perché oggettivamente non ero bruttina, ma brutta brutta davvero, e non c’era più motivo che io portassi quel nome.
Sinceramente, io me l’ero anche scordato di chiamarmi così.
Non parlo da 50 anni: dal giorno della scomparsa della mamma.
Ricordo papà che si disperava maledicendo la cattiva sorte.
Nessuno dei parenti, amici e vicini mi chiese nulla ed io a nessuno dissi che avevo sentito le urla della mamma durante la notte.
La direttrice oggi mi ha chiamato. Mi ha detto di scrivere la mia storia:è sicura che io possa farcela . Una ragazza è interessata per la sua tesi. di psicologia.
Questa è! Questa è stata!
Scusate gli errori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Cesare Augusto
di Ida De Giorgio

 

Mi chiamo Cesare Augusto, dottor Cesare Augusto. Il mio è un nome di famiglia, di quelli che si tramandano con orgoglio di padre in figlio. In passato ci sono state delle varianti: Cesare Ottaviano Augusto, Cesare Massimo Augusto; purtroppo, qualche generazione fa, i fratelli Cesare Giulio e Cesare Marcantonio finirono per innamorarsi della stessa donna, tale Cleopatra Spampinato, che di faraonico non aveva niente, ma se ne intendeva fin troppo bene di “aspidi”. Il duello che ne seguì non lasciò tracce sui corpi ma fu fatale all’onore, visto che la suddetta preferì fuggire con un Giovanni qualsiasi. Nessuno parlò mai di destino nel nome, ma da allora si preferì adottare soluzioni distintive più semplici: Cesare, Cesare Secondo, ecc. Anche la professione è di famiglia: ci sono ortopedici, ginecologi, cardiochirurghi. Tutte specializzazioni degne di un patronimico evocativo di gloria e fama. Io sono proctologo. Curare la parte retrostante degli esseri umani è stata una scelta maturata durante la pubertà, quando i miei compagni hanno spiccato il volo verso l’alto ed io sono rimasto piccolo. Una anomalia metabolica ha impedito che raggiungessi le ragguardevoli altezze dei Cesari e mi ha lasciato fermo al metro e dieci. Più gli organi riproduttivi altrui si avvicinavano al livello dei miei occhi, più la gente tendeva a darmi le spalle, imbarazzata dallo sbattermi in faccia le proprie grazie. Così, se non era necessario coinvolgermi nella conversazione, che si fosse ad una festa o alla fermata dell’autobus, io finivo circondato da una selva di mappamondi, mandolini, collinette svettanti o dossi sfiancati ed è lì che ho pensato: se non puoi evitarli, impara a conoscerli. La mia decisione non è stata presa bene da Cesare Augusto padre, che già aveva vissuto male la mia indelicatezza nel non adeguarmi alla statura di famiglia: ” Infilare dita nell’ano della gente non è fare il medico”, aveva sentenziato, ma io ho tenuto fede alla mia scelta. Ho una specie di piacere sadico nell’infilare i guanti mentre il paziente si sbraca, denudando con imbarazzo ciò che mi sbatterebbe in faccia senza remore in altro ambiente; una specie di contrappasso dantesco: chi di chiappa ferisce… Quando finisco di saggiare le terga altrui, torno a casa da mia moglie. Non l’ho sposata per le qualità “retrospettive”, ma perché si chinava per guardarmi negli occhi parlandomi. Mia moglie è una buongustaia alta e bionda e condivide la mia passione per la cucina. Sono un ottimo cuoco, spazio dai primi ai dolci ,ma la mia specialità è il tacchino ripieno: mi riesce facile farcirlo data la mia competenza sul punto di ingresso. Qualcuno mi chiede come faccio ad apprezzare il cibo dopo aver finito di rimestare nel torbido, ma io rispondo che, dovendo curare l’uscita dell’apparato digerente, trovo doveroso conoscere ciò che passa dall’entrata. Anche Cesare, il primo quello vero, era un buongustaio, lo scrive anche Plutarco! E poi trovo ci sia una originale analogia fra la mia professione e la mia passione: che sia gastronomia o proctologia, sempre di “culinaria” si tratta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Rufus
di Renato Margareci

 

Il destino di un cane
Ricordo la sera in cui mio figlio Maurizio rientrò assieme alla ragazza con la quale allora amoreggiava, recando tra le braccia uno strano fagotto che si agitava.
Era un bellissimo cucciolo di taglia media, snello, col pelo raso e di colore gelato di nocciola.
Lo aveva trovato legato ad un palo, probabilmente qualcuno lo aveva abbandonato li per disfarsene.
Io e mio figlio eravamo entusiasti ed ovviamente, favorevoli a tenerlo ma mia moglie, che fino ad allora, aveva sempre avuto un terrore pazzo per i cani, era li per li per avanzare qualche scusa ed obiezione.
Ma, come se avesse capito dove si trovava l’ostacolo da superare, il cagnolino si piazzò proprio davanti a lei e guardandola si mise allegramente a scodinzolare.
Bastò quel gesto per fare crollare le mura di Gerico e quel cane a cui demmo subito il nome Rufus, entrò a fare parte della nostra famiglia.
Chi non ha mai provato ad avere con se un cane, non potrà mai capire come questo ingresso, possa cambiare completamente la propria vita,
Si può paragonare l’evento ad una nuova nascita in famiglia.
Rufus era proprio un rubacuori e riuscì in pochi giorni a farsi volere bene da tutti a partire da mia moglie che dall’essere titubante era passata ad essere quella che di più lo coccolava e lo viziava.
Era per noi, una gioia portarlo al parco dove Rufus che era un cagnolino festoso ed andava d’accordo con tutti gli altri cani, era diventato il beniamino di tutti, per la sua simpatia e voglia di giocare. Perfino i cani più scorbutici con lui perdevano ogni aggressività.
Una mattina, come al solito, mia moglie che lo aveva portato a giocare nel piccolo parco dietro casa, tornò a casa agitata , raccontandomi che Rufus correndo per giocare con gli altri cani, aveva sbattuto violentemente contro una panchina, cadendo e rimanendo immobile per alcuni istanti. Si era poi ripreso e tornato a giocare come se nulla fosse accaduto.
Pensavo tutto fosse andato per il meglio, ma nel pomeriggio sentii forti rumori provenire dalla stanza dove si trovava.
Mi precipitai e lo vidi per terra che si sbatteva in preda a convulsioni.
Con enormi difficoltà cercai di prenderlo in braccio per evitare che sbattendo così si facesse più male e dopo un paio di minuti, tornò in se, ma molto stralunato.
Chiamai immediatamente il veterinario e la diagnosi fu una condanna inequivocabile: – Epilessia.
Il povero Rufus ci guardava con lo sguardo smarrito ed aveva perso completamente la memoria.
Non ci riconosceva neanche più.
Seguirono sei mesi di cure intense in cui tutti riversammo su lui tutte le nostre cure ed attenzioni ed eravamo riusciti a riportarlo alla normalità.
Gli attacchi erano sempre meno frequenti la sua indole gioiosa prevaleva e lasciava sperare il meglio.
Ma il destino aveva stabilito diversamente.
Un pomeriggio due amici di mio figlio che stavano portando il loro cane al Parco Nord, ci chiesero di affidare loro Rufus. Non era la prima volta che lo portavano fuori e quindi acconsentimmo volentieri.
Ma la sera, tornarono mogi con il loro solo cane.
E Rufus?
Rufus si era perso e non erano riusciti più a rintracciarlo.
Tutti ci mobilitammo per fare il possibile per recuperarlo.
Non ci fu nulla da fare. Ogni tentativo rimase vano.
Misi delle inserzione sui quotidiani promettendo ricompense.
Attaccai post-it ad ogni palo delle vicinanze del Parco Nord.
Consultai tutti gli studi veterinari, pensando che se qualcuno lo avesse trovato, sarebbe dovuto ricorrere ad un veterinario, perché senza assumere le medicine, sarebbero tornati gli attacchi. Ma niente !
Ancora oggi mi porto dietro il dolore di non sapere che fine abbia fatto ed il pentimento di averlo affidato ad altri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Caino
di Daniela Cappanari

Figlio di Adamo
meglio conosciuto
come il primo uomo
Non è possibile
fare confusione
Dopo di lui nessuno
ha avuto l’onore
di portare questo nome
“Onore?” Vi ho scandalizzato?
Scusate tanto
Io sono il suo avvocato
Avvocato “pro bono”
perché questo pover’uomo
Son millenni che attende
che gli sia concesso
un giusto processo
Certo, è vero,
ha ammazzato suo fratello
Il che, lo ammetto,
non è che sia bello!
Ma dove la mettete
la provocazione?
Quell’Abele, ammettiamolo,
era un rompicoglione!
Tutto perfettino,
con le sue pecorelle,
a Dio sacrificava
sempre le più belle
Lui zappava la terra,
e invece dell’abbacchio,
poteva offrire patate, carote,
magari qualche finocchio!
Il nostro Caino,
ci avete pensato?
Oggi sarebbe un vegano
e per questo rispettato
Non c’è stata alcuna
premeditazione
E l’Onnipotente
che si dice clemente
gliela poteva almeno dare
l’infermità mentale!
Ha sbagliato a nascere,
questo povero fesso!
Di questi tempi,
dove tutto è concesso,
in fratricidio sarebbe stato
una bella occasione
Un libro, qualche ospitata
alla televisione…
Sarebbe un milionario
E io non sarei più
il suo avvocato “pro bono!”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Maya
di Mauro Berti

 

Lontana, distaccata, protetta da una cortina impenetrabile di ghiaccio e nebbia; altera di una sua fierezza che la rendeva estranea alle cose del mondo di tutti, degli altri. Eppure, viveva tra questa gente e queste strade, eppure si mescolava a diseredati e straccioni, a chi non aveva niente e con loro, spezzava il pane e, a loro, sapeva regalare sorrisi e calore. Bella di quella sua bellezza figlia non di questa terra, forse del cielo sposo alle onde, fragile come un giunco, ma che il vento non sapeva piegare mai, schiva del suo sapere, certa di non sapere, ‘sciamana’ e fata insieme. La sua pelle era velluto e la luce dei suoi occhi accendeva il buio, riflessi di sole, i suoi capelli, mai ferma, mai doma, mai soddisfatta di ciò che era o aveva, sempre in cerca di nuove sfide e draghi da addolcire e vincere; come il suo nome, era una sorta di magia, un frutto proibito, partorito da “El Dorado”, gatta irrequieta e morbida, sinuosa e sensuale, che sapeva, con uno sguardo, scaldarti o raggelarti il cuore. Donna e bambina insieme, vagamonda del tempo e dello spazio che di ogni luogo, sapeva ‘fare casa’, ma che sapeva dove il suo vero “nido” e a chi donare il cuore. Forse sognata in una notte di Primavera, forse incontrata sull’Isola che non c’era, forse inventata in una notte di una calda Estate, forse un miraggio od una goccia di infinito che il cielo aveva distrattamente lasciato cadere…
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Candido Fiore
di Graziella Dimilito

 

Amante della natura, estroversa, sorriso aperto e sincero, bella presenza, gentile con tutti, sempre disposta a nuove conoscenze e amicizie vere e durature”.
Viola S. “la sfregiata”, alias Candido Fiore, guarda sogghignando i like e le richieste di appuntamento che fioccano numerose. Intanto affila il rasoio.
Come un rapace aspetta l’incauta preda per vendicarsi del male ricevuto.
Avvolta nell’accappatoio, assorta in pensieri cupi, vive sola con un gatto, l’unico che non bada al suo viso deturpato, ed è sempre felice quando la vede tornare all’alba. Lui non la giudica per ciò che ha fatto durante la notte. Era tanto dolce un tempo Viola, era la figlia che tutti avrebbero voluto,
forse troppo ingenua e credulona, lei, così solare e socievole, aveva persino creduto che Luca la
picchiasse perché l’amava troppo ed era geloso di chiunque la guardasse. Fino al giorno in cui, in un impeto di rabbia aveva sfregiato il suo bel viso col rasoio. Poi fuggì e non lo vide mai più.
Le occhiate di commiserazione di amici e conoscenti la indussero a rinchiudersi in sé stessa, per tutti era diventata “Viola la sfregiata”. Il suo cuore si indurì, il desiderio di vendetta prese il sopravvento.
Il web ora le permette finalmente di vendicarsi, accalappiando incauti uomini, nei quali rivede Luca e su di loro si vendica con un preciso colpo di rasoio.
Viola, Candido Fiore, una donna sfregiata nel corpo e nell’anima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Irene
di Irene Minuti

 

Anima gemella

Eccola è lei, una donna sulla strada della mia vita. Tutti i giorni la incontro sapete abbiamo stretto amicizia, molte cose in comune ci legano, lo stesso stato d’animo per esempio.Viviamo nello stesso borgo, nel nostro mondo silenzioso ci facciamo compagnia. È una signora non elegante ma a modo. Copre le sue ampiezze sempre con pantaloni e magliette ampie, però devo riconoscere: è stata brava, una bella dieta ed è molto dimagrita, certo alla sua età una minigonna non potrà mai indossarla ma sicuramente gioverà alla sua salute. Gioielli! Nemmeno a parlarne. Una vera all’anulare basta per la sua impresa memorabile che dura da trentaquattro anni. Un velo di trucco ed esalta i suoi occhi di ghiaccio. Il suo sguardo cela una vita vissuta ed ogni giorno mi racconta qualcosa di se. A volte si rattrista e si commuove di qualche ricordo non bello di qualche delusione. Ma quando mi racconta dei suoi figlioli è un tripudio di gioia, fiera di loro. Naso aquilino, bocca piccola, ma grande all’occorrenza per urlare la sua rabbia. Pensate un po’ che fortuna averla conosciuta è generosa sempre pronta ad aiutarmi. Delle volte bisticciamo vuole sempre avere ragione, dice tutto il suo segno zodiacale: leone capoccione, ma poco importa gli voglio bene , quasi l’ amo. Ops… scusate che sbadata quasi dimenticavo di dirvi come si chiama… si chiama Irene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Salvatore
di Giuseppe Gavazzi

 

Salvatore è un simpatico ragazzone né vecchio né giovane, dal fisico prestante e dai modi gentili. Mi capita spesso d’incontrarlo alla stazione della vesuviana di piazza Garibaldi, e penso che lo conoscano in tanti, forse mezza Napoli. Io sono uno dei suoi clienti: fa il venditore di accendini, e per me, accanito fumatore, la sua merce è sempre gradita perché poche cose sono più volatili d’un accendino.
Salvatore ci sa fare. Con modi mai troppo insistenti e sempre col sorriso vi propone l’acquisto, e se non riesce a vendervene qualcuno, mai lo vedrete contrariato, o che bofonchi sommessamente qualche cosa di sgradevole.
Mi sono permesso, qualche volta, ma con discrezione, di rivolgergli delle domande e ho saputo che non ha fatto sempre quel lavoro, che ne aveva uno stabile in apparenza, e maggiormente considerato dagli altri. Purtroppo, ed è storia di tanti, s’è visto appiedato da un giorno all’altro: era in soprannumero… la crisi… e l’azienda l’ha licenziato in tronco. Ormai, data “l’evoluzione” del concetto di modernità lavorativa, i datori di lavoro fanno quello che vogliono.
All’indomani del fattaccio, dopo un po’ di comprensibile sconcerto e rabbia, il nostro amico però era già pronto a rigettarsi nella mischia; avendo una moglie e dei figli non poteva concedersi alcun riposo o pausa di riflessione, come sarebbe stato umanamente giusto. Ma lui sa che nella nostra bella società non c’è pietà per chi è ferito: almeno in una guerra convenzionale se sopravvivi a qualche bomba puoi sperare che qualche medico si prenda cura di te; nel mondo del lavoro invece la compassione altrui te la puoi scordare.
E allora eccolo a fare domande su domande, concorsi su concorsi, con i risparmi investiti nella speranza d’un riscatto, d’una possibilità di sopravvivenza; ma i suoi pochi soldi presto finirono nel nulla: unico risultato, un numero notevole di “le faremo sapere”…
Pensate forse si sia avvilito? Neanche per idea, ed ecco il nostro eroe ancora in campo: call center, barista, cameriere, autista, rappresentante di pentole, ecc. ecc. ma sempre sottopagato, sfruttato, umiliato, perché i tanti mutevoli datori di lavoro solo in una cosa non differivano: la comune arroganza. Però Salvatore non è fesso, e piuttosto che fare lo schiavo per pochi sudatissimi spiccioli, ha preferito affrancarsi da quelle maledette servitù che non garantivano alcunché, neanche il necessario per vivere. Abbandonando quegli impieghi precari si liberò anche degli obblighi che ne derivavano: niente pause caffè, in molti casi anche trattenere la pipì fino allo scoppiamento vescicale, ovviamente niente sigaretta antistress, e la pausa pasto rapidissima e quasi sempre a proprie spese.
Eccolo perciò ad un vero approdo lavorativo: venditore di accendini, e di lavoro vero si tratta perché Salvatore ogni giorno fa chilometri a piedi in stazione e in tutte le stagioni.
Credo che abbia trovato la soluzione giusta. È un bravo venditore e credo che in un mese guadagni forse più d’un operaio, senza tasse, senza obblighi e soprattutto senza padroni. Ora decide lui quando concedersi un caffè, oppure mangiare e può anche soddisfare le sue necessità organiche senza pregiudicare la salute con inopportune ritenzioni.
Salvatore io lo stimo tantissimo perché è un uomo che ha conquistato la sua libertà!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Bianca
di Civita Buttaro

Un volto di donna: i lineamenti delicati: Bianca o forse Alice… molti la conoscevano come Valentina.
Nessuno sa il suo vero nome. E lei si confonde ancora, un fiore cade senza far rumore. Lo specchio le rimanda un sorriso sgangherato o un pianto isterico. I suoi capelli sfioriti, non le piacciono.
È da tanto che non si guarda più. Sempre gli stessi gesti, fino a quel mattino. La brezza di un giorno qualunque e lo squillo del telefono, rompono la monotonia di attimi spezzati dal nulla.
Una vocetta impacciata chiede di Bianca. Rimane sconcertata, il passato che ritorna… una bella rogna.
Una delle sue tante facce, nascoste in un cassetto polveroso. Poi le telefonate si fanno frequenti. Dall’altro capo della cornetta una voce di vecchia, chiede sempre della stessa persona: Bianca. Molti i tentativi per spiegare alla donna che ha sbagliato numero.
All’inizio un po di imbarazzo per l’insistenza ma col tempo ci si abitua a tutto.
Quasi una coccola, leggere in quelle poche parole, la storia di chi ha una sofferenza interiore e una vita da decifrare. Un po come chi risponde: la donna del mistero!
Le difese si sgretolano, all’ennesima chiamata e arrivano le lacrime. Irrefrenabili, disperate, quasi una espiazione.
Riemerge un dolore che vuoi dimenticare a tutti i costi. Quella voce… Dio quella voce, è di tanto tempo fa.
E non ti aspetti più niente. Non le dirai mai chi sei veramente. Bianca non esiste più.
Strana la vita e quel legame, che quasi sfugge alla logica. La metamorfosi di un nome che è anche il tuo.
Leggerezza dell’essere, uno sguardo che sembra dipinto e quegli occhi, che quasi ci si legge dentro. Forse sei lei in un’altra vita: sorridi a denti stretti.
Tu, sei lei… prima del manicomio. Devono averli chiusi per fortuna, te lo dici da sola. Sei diventata un’altra e la vecchia signora non ti chiamerà più.
Da quel momento risorge dalle ceneri Bianca. Leggera come l’onda. Bianca come la neve.
Ancora oggi, a distanza di anni, quando c’è vento nell’aria, ti sembra di sentire quella vocina, come carezza.
È arrivato il perdono. La vecchia si chiamerà per sempre Ricordo, Bianca ti farà compagnia, fino alla prossima vita.
Immagini gabbiani liberi in volo ma gli occhi fissano il soffitto di una cella 4 per 4.
“Non sei mai stata così bella”
L’incubo ricomincia…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Capitan Ventura
di Pino Lombardi

Succedeva sempre così, anche se oramai le ossa si intravedevano sotto il leggero strato di pelle che gli rimaneva, ogni volta che cercava di smettere con quello schifosissimo Squid, una fame mostruosa l’assaliva e passava tutto il tempo a ingozzarsi di frutta biodinamica liofilizzata, non che gli piacesse, ma era l’unica cosa che riusciva a mandar giù, ricavo di un testimonial scritto per la “Tropical Ltd”, ne aveva ricevuta a cartoni in regalo. Ne era passato di tempo da quella fortunata pubblicità, allora le parole scorrevano come fiumi e ancora non aveva incontrato i Gemelli, due personaggi distinti, dal fare nobile, ma che lo avrebbero inguaiato per sempre… Li conobbe alla “Taverna del Porto”, un locale adiacente la stazione aerea, fu l’ennesima sera in cui le dita delle mani gli si erano semi paralizzate e non riuscendo a scrivere, decise di uscire per bere qualcosa. Dopo solo due bicchieri di estratto d’agave, gli aveva raccontato del suo problema articolare e quando loro si offrirono gentilmente di aiutarlo, lui ne fu entusiasta. Uscirono dal locale e sotto una luna piena da mezzogiorno notturno, gli fecero provare quel maledetto Squid. Come entrò in circolo nel sangue, la sua vena artistica prese a scorrere di nuovo e con lei le sue mani. Si precipitò a casa e scrisse per tutta la notte, felice e ignaro che quel nero di cefalopode geneticamente modificato, gli avrebbe prosciugato tutti i suoi averi, tutti i suoi sogni e tutta la sua carne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Benjamin Button
di Anna Bellocchio

Oggi ho 6 anni.
Domani 31 ottobre del 2014 festeggerò una festa molto strana, si chiama Halloween.
Mi hanno preparato un bel vestito, un frac con il panciotto, il farfallino, il mantello, la tuba e il bastone. Andrò di porta in porta con i miei piccoli amici canticchiando canzoncine stupide e, sorridendo, chiederò ai gentili signori che mi apriranno il loro uscio: «Dolcetto o scherzetto?».
Questo rito un po’ banale mi riempirà un cesto di biscotti, di piccoli spiccioli, di cioccolati incartati in fluorescenti stagnole.
Mentre la notte si fa sempre più scura tornerò verso casa tra i sorrisi di mamma e papà che mi accoglieranno scegliendo quello che potrò mangiare dopo, nella solitudine della mia stanza, mentre loro, i grandi, continueranno i festeggiamenti vestiti con abiti strani indossando improponibili maschere orripilanti.
Da qualche anno questo rito si ripete e con esso la mia indigestione di cioccolato e il successivo mal di pancia il giorno successivo.
Eppure mi ricordo, tanto tanto tempo fa, nel 1913, quando ho compiuto 107 anni, la sera del 31 ottobre era diversa. Ricordo mia madre -che carnalmente non lo era- preparare la minestra calda al fuoco di un camino e, a lato, cuocere patate dolci immerse nella brace. Le castagne non mancavano, erano bollite e fumanti. Le mie mani erano tremolanti per l’età e il mio passo incerto sostenuto da un bastone grezzo. Mi sedevo lentamente, con la flemma dei miei anni dinnanzi a quel fuoco e rimanevo silente a guardare quelle fiamme.
Si mangiava silenziosamente , con lo sguardo basso perché quella era una sera particolare.
Su quel tavolo di legno, povero e ormai logoro però non mancava mai un centrino usato solo per quella occasione; sopra si disponeva un piatto con le castagne ancora fumanti, un bicchiere riempito a metà del vino più buono che c’era in credenza e, allo spegnersi del lume, ci accendeva una piccola fiamma fatta con ovatta e olio.
Era la sera in cui si doveva ricordare, ricordare chi se ne era andato prima di noi affrontando l’ultimo viaggio senza ritorno. Si, ricordavamo i nostri morti e, a loro, facevamo dono di queste piccole cose: castagne e vino.
Poi gli anni corsero via a volte lentamente e a volte velocemente e mano a mano che passavano io ringiovanivo e le cose cambiavano.
Ora sono qui, ad aspettare domani . Indosserò quel frac e andrò in giro a festeggiare non so che!
Questo è l’anno 2014 e io ho solo 6 anni ma io ho la fortuna di poter ricordare cosa è veramente la ricorrenza della notte del 31 di ottobre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Lulù
di Enrichetta Gnocchi

Aurora, quasi alba, no quasi mattina, ma no primo pomeriggio ma anche notte fonda. Uno sbadiglio sinuoso, due occhi, due orecchie, il naso, la bocca: per fortuna c’è tutta anche oggi. Fatemi però controllare se c’è anche il resto.
Bella è bella, cervello ne ha, il suo sorriso non ha rivali. E vogliamo parlare delle sue gambe toniche e lunghe? Parliamone!!! Fanno girare la testa a uomini e donne. Di lei non si butta via niente, come il maiale. Ma la cosa che più esalta e risalta in lei sono i fluenti capelli color mogano scuro. Tutti la guardano, tutti vorrebbero essere lei. E allora perché ha sempre quella sensazione di disagio? Perché quel non so che di sgradevole ad ogni risveglio che la tormenta ormai da anni? Lei, che in tanti considerano una dea, troppo in alto, intoccabile ed irraggiungibile, lei si sente sempre in prestito. Lei si sente come incollata nei movimenti, nei pensieri, come di stucco.
Lei ha un sogno, ormai non più tanto segreto.
Ormai va ripetendosi sempre più spesso la stessa frase: «non voglio più essere un manifesto pubblicitario! Lulù non c’è più».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Kha Sobek
di Lucia Amorosi

Prima di tutto ciò mi chiamavo Kha, un nome comune qui nelle Due Terre.
Da qualche stagione però questo è mutato in Kha-Sobek, e sono l’unico credo oggi a glorificarmi di questo nome, già perché il significato è proprio “gloria del dio Sobek”; ma sarà meglio che mi spieghi.
Sono un uomo pingue di quarant’anni, mi dicono dal volto gioioso e simpatico.
Curato nell’aspetto, amo mantenere ben lucido il cranio rasato e lindo il gonnellino bianco.
Adoro sorridere alla gente e salutare con affetto chiunque mi conosca, e vi assicuro che in questo tratto del Nilo mi conoscono tutti.
Sono nato accanto al tempio del dio Sobek, quello dalle sembianze del sacro coccodrillo, e ho giocato da bambino tra i palmeti di datteri e i fiori di loto.
Per anni ho assistito mio padre che svolgeva la professione di imbalsamatore, principalmente di coccodrilli. Dovete sapere infatti che sono moltissimi i nobili facoltosi che amano offrire al tempio mummie del sacro rettile, che li preservino dalla malasorte e gli assicurino un passaggio facilitato per l’aldilà.
Ho poi assistito inerme alle cacce sul Nilo, svolte da tanti giovani eroi che per un lauto guadagno rischiavano la vita tra le fauci delle loro prede.
Quanta gioventù ho visto morire! Quanti pianti ho dovuto consolare!
Eccomi, io sono quello che ha trovato la soluzione, quello che ha asciugato le lacrime.
Ho ottenuto dal governatore la concessione di un tratto di palude e ho impiantato un allevamento di coccodrilli, così che gli offerenti possano finalmente donare una mummia senza avere sulla coscienza un giovane cacciatore.
Immensa è la gloria che mi ha reso questa attività, e che ha visto ampliare il mio favore verso la popolazione; mi adorano al punto tale da cambiarmi il nome.
Sì perché oltre a scongiurare tante morti premature ho risolto il problema della criminalità locale. Come? Ovvio, qualcosa i miei amati coccodrilli dovranno pur mangiare!
Eccomi, sono la Gloria del dio Sobek!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Nasinsù
di Daniela Fontana

Lo chiamavano Nasinsù perché aveva sempre la testa tra le nuvole. La sera quando tornava a casa i ragazzi del quartiere gli facevano ogni tipo di scherzo, qualche volta inciampava in una corda tirata, talvolta non riusciva a mettere le chiavi nella serratura perché vi era stata messa della colla, altre volte gli avevano sgonfiato le gomme dell’auto, ma lui non s’inquietava, alzava le spalle e faceva un mezzo sorriso guardando il cielo. Il suo mondo era lassù, dove c’era il suo sogno. La sera quando chiudeva la porta di casa non guardava la tv, ma apriva la finestra del suo terrazzino e parlava con le nuvole. Aveva annodato per mesi una lunghissima fune ed ora era pronto a lanciarla nel cielo, si sarebbe attaccato a Cirro o a Nubina perché lo stavano aspettando, lassù lontano dai pensieri, dalle preoccupazioni, dalle stupide risate dei suoi colleghi. Così quella sera iniziò a salire, lui che era stato sempre pauroso, ora si sentiva pieno di coraggio ma non osava guardare in basso, forse c’era qualcuno che stava osservando. Da poco aveva smesso di piovere ed all’improvviso comparve l’arcobaleno, e lui piccino, piccino vi entrò. Eccolo nel rosso dove si sentiva ardere di passione, nell’arancione che gli trasmetteva il buon umore, nel giallo dove c’era la gioia di vivere, nel verde la serenità e la speranza di un mondo migliore, nel blu come nelle notti stellate ed infine nell’indaco e nel violetto che gli ricordavano i suo sogni: era felice come non era stato mai finalmente aveva la testa tra le nuvole!Senza nessun preavviso un forte vento fece allentare la corda, un balzo e lui si ritrovò di nuovo nella sua stanza, un sogno, un’allucinazione? No domani ci riproverà ancora e sarà sempre così finché avrà forza, voglia di sognare e di riempire gli occhi e il suo cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Angelica
di Cristiana apostolo

Amava visitare parti della città che non conosceva e lo faceva rigorosamente a piedi.
Per non perdersi usava una mappa di quelle di carta, che appoggiava goffamente sui muri per segnare i percorsi che ancora doveva percorrere.
Un giorno si ritrovò a passare da una strada costeggiata da ville signorili e antiche, le ammirava affascinata da sopra le siepi tutte ben curate.
Davanti ad una casa che aveva l’aria di essere la più vecchia di tutte, circondata da gelsomini in fiore si fermò ad annusare il profumo che da essi scaturiva.
Qualcuno stava legando con delle fascette alcuni rami ribelli ma lei non non se ne curò.
«Che fragranza eccitante vero?’» disse una voce all’improvviso.
Sorpresa si scostò per guardare da dove provenisse, ma non c’era nessuno.
«Vuole un rametto?’»
Alzò lo sguardo, oltre la siepe un paio di occhi scuri la osservavano divertiti, la voce apparteneva a loro.
«Ma no non si disturbi’» borbottò imbarazzata.
«Non è affatto un disturbo, prego entri». Così dicendo sparì per riapparire un istante dopo oltre un cancelletto più avanti.
Angelica avrebbe voluto scappare ma ormai doveva salvare la faccia, quindi accettò l’invito dello sconosciuto, meravigliandosi di se stessa dato che era parecchio diffidente con chi non conosceva.
Varcò la soglia del cancello ebbe un brivido e uno strano presentimento.
«Marco piacere» disse l’uomo gioviale. Era alto, e dal viso paffuto.
Non era per nulla un tipo né un figo ma succede in alcuni casi che scatti qualcosa all’istante.
‘«Angelica» balbettò lei di rimando.
«Sarei maleducato se non ti offrissi qualcosa».
Come un automa seguì quell’uomo, diverso dai più, adesso che lo osservava bene.
Aveva i capelli lunghi raccolti in uno chignon sopra la nuca indossava jeans fuori moda che gli conferivano una vaga aria hippy.
Anche la villa sembrava diversa da come si vedeva da fuori, meno curata e pareva più un gattile, date le moltitudini feline che spuntavano da ogni dove.
Lui le fece strada indicando una porta a vetri in stile inglese che dava sul cortile.
Ma lei prudentemente disse che preferiva sedersi al tavolino del gazebo, lì vicino.
Un bellissimo gazebo in ferro battuto ricolmo di glicini dai grappoli lilla che penzolavano disordinatamente ma con un certo stile.
Lui alzò le spalle e la fece accomodare, e poi sparì dietro la porta a vetri ricomparendo poco dopo recando un vassoio con una caraffa piena di un liquido giallo due bicchieroni da bibita e un cestino con della frutta.
Angelica si sentì in dovere di accettare pensando di bere solo un goccino, mentre lui versava con abilità da maître, il liquido nei bicchieri raccontandole fiero che era una bevanda di sua invenzione, elencandole ingredienti dai nomi improbabili.
Mentre lei beveva lui sembrava attendere trepidante il suo giudizio.
Ne assaggiò prudente una sorsata e dovette ammettere che qualsiasi cosa fosse era molto buona.
Poco dopo della sua proverbiale diffidenza timida non c’era più traccia e mentre dei gatti le si arrampicavano addosso strusciandosi e facendo le fusa rideva a crepapelle e non si ricordava da quanto tempo non si sentiva così.
Da allora non si ebbero più notizie di Angelica.
In molti quel giorno la videro entrare in quella villa disabitata da parecchio e ormai frequentata solo dai gatti.
Dissero che sembrava in trance. I carabinieri misero sotto sopra quello che era ormai diventato un rudere, ma non trovarono nulla. Solo la sua fedele piantina.
I padroni della villa l’avevano lasciata dopo che il figlio Marco si era suicidato molti anni prima impiccandosi li, sotto al gazebo dei glicini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento la Sirena delle mareggiate
di Franco Roberto Rinaudi

Come rugiada all’alba la spuma delle onde irrora lo scoglio. Poi il mare si ritira e l’alga sommersa, per un attimo, solo per un attimo rimane sospesa in cielo. Ed è in quest’attimo di sospensione che si chiede se sia possibile vivere fuori dal mare, forse immaginando di abbandonare per sempre lo scoglio su cui è nata e dov’è destinata a morire. E già, questa pianta, pensa alla favola che le racconta la Sirena delle Mareggiate nelle notti d’estate: “Esistono praterie sterminate di alberi sulla terra, come enormi sconfinate distese di alghe in fondo al mare. E tutto è verde come lo sei tu”. E l’alga pensa se il suo ostinato abbarbicarsi ad uno scoglio sia un modo di rinunciare alle infinite vite che potrebbe avere se si lasciasse andare, se solo trovasse il coraggio di farlo. E mentre l’amato mare subito torna a coprirla con una carezza d’acqua, l’alga sospira su un frammento di scoglio, e questo effluvio profuma l’aria spumosa che io respiro mentre, al riparo dei marosi, immagino la mia vita nei fondali marini se solo trovassi il coraggio di fare come l’alga che ripone con fiducia la sua vita alla madre acqua. E mentre mi tuffo in questo pensiero un velo trasparente e salato mi avvolge tentatore e subito ricade.
Il velo che, come una ragnatela, la Sirena delle Mareggiate lancia con un fragore di canto melodioso a chi, come me, ha orecchie per ascoltare le pulsazioni delle onde che non sono altro che il battito del cuore eterno del mare, infinito, implacabile, in un lento susseguirsi di echi della stessa nota ripetuta che, come un mantra, si ripete, muta e ridiventa rugiada come è rugiada all’alba la spuma delle onde che irrora lo scoglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Valeria
di Stefania Rossi

Aveva deciso di cambiare strada. Avrebbe attraversato il ponte… aveva gambe lunghe e un sorriso da ragazzina non ancora cresciuta.
I suoi capelli neri le coprivano gli occhi azzurro/grigi, a volte viola, quando il sole riusciva ad uscire da quel cielo difficile.
Dal ponte avrebbe visto tutto; aveva abbastanza tempo e sguardo veloce… doveva rivederlo, per riuscire a strapparselo da dentro.
Valeria portava un cappotto nero, pesante, nonostante il suo corpo piccolo e le sue esili spalle… e una sciarpa… attorno al collo lungo da cigno.
La sciarpa era stato un suo regalo… una delle volte che si erano amati: lui era arrivato con quella sciarpa, e subito Valeria l’aveva voluta… aveva il suo profumo…
Camminava piano sul ponte, ma decisa, forte come sua nonna.
Lo avrebbe visto insieme alla sua famiglia… forse vecchio…
Lei era giovane, fresca, bella, di pelle bianca di luna…
Doveva farlo e trattenere tutto quello che le era successo, per poter sopravvivere… avrebbe amato ancora e ancora e ancora… ma lui le sarebbe stato dentro per sempre, come senso di sé…
Non avrebbe avuto tempo di pensare… lo avrebbe guardato, amato, e lasciato. Tutto in un solo attimo infinito.
Salì sul bordo del ponte, dove poteva guardare la strada…
Lo vide subito: alto, magro… capelli grigi ricci, folti… gli occhiali rotondi e quel viso antico da combattente anarchico…
Aveva un sigaro in bocca… e teneva sua moglie per mano.
Le bastò. Valeria saltò giù… ma prima lo guardò intenerita, mordendosi le labbra piccole, ancora da provare…
Non sarebbe tornata indietro… ma l’ultimo sguardo… l’ultimo! Lui per un impercettibile secondo guardò nella sua direzione, incrociando il suo sguardo… malinconico, la vide… si fissarono… sapevano di amarsi.
Lui fece un cenno, quasi a volerla trattenere, ma lei era già di spalle verso un’altra vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Capitan Ghost
di Vincenzo Vichy Pazzi

Ghost, questo è il mio nome. Sono capitano della nave spaziale “Blue Ray”.
Da tempo vivo in una oscura galassia cosmica infinita alla mente umana ed ho l’ordine di seguire una meteora che si dirige verso la “Via Lattea”.
Nei calcoli direzionali esattamente la sua linea di fuga è la “Costellazione di Orione” e punta dritto su un pianeta chiamato “Terra” o “Pianeta Azzurro”.
Il Comandante della costellazione Universale mi ha dato l’incarico di risolvere questo problema per via delle mie origini terrestri: dovrò far esplodere questa meteora classificata come “Lost-Hope”; è un compito arduo ma devo farcela…
Se tra un ciclo cosmico, cioè tra 10 anni terrestri, vedrete un bagliore avvicinarsi giorno per giorno, allora capirete che non ho portato a termine il compito, mio malgrado. Perdonatemi.
Addio terrestri, addio miei avi; vi prometto che darò la mia vita per salvare il vostro Pianeta Azzurro, perché è unico in questo universo da noi conosciuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi presento Luisella
di Vittoria Alices

La piccola Luisella, (era magrissima, e bassa un metro e quarantanove centimetri), il giorno del suo diciottesimo compleanno si presentò alla solita festa a sorpresa, che a sorpresa non era mai, vestita di nero, capelli gelatinati con una cresta alta quasi quanto tutta lei, trucco nero pece, e una bella Marlboro fumante in bocca.
Niente di strano, se non fosse che, la piccola, fino ad allora era stata una timida ragazzina studiosa, apparentemente poco perspicace, ma tranquilla.
il “buon compleanno” di genitori parenti e amici rimase a metà ma, dopo dieci secondi di silenzio, cominciò un bisbiglio insistente.
Mamma Maria le si avvicinò, seguita dal consorte allibito,
(sembrava uno zombie): «Piccola mia! Da quant’è che hai imparato a fare gli scherzi?».
Ma a tutti era chiaro che non fosse una scherzo, data l’espressione truce di Luisella. Pareva indemoniata: i suoi occhiettini verdi sembravano smeraldi, tanto luccicavano, e la sua boccuccia da bimbaminkia, solitamente invisibile, con quel rossetto nero morte, sembrava il buco del sedere di un sudafricano.
La sua migliore amica, Jessica con la gei, quasi tremando, fece un po’ di passi avanti: «Luisella…».
Manco finì la frase che Luisella, con occhi da fari luxory antinebbia, la freddò: «Che cazzo ci fai qua tu? Vai a scopare col fidanzato della tua amica, come sei solita fare! Vai và!».
La poverina si dileguò ed il silenzio in sala ripiombò.
Nessuno osò ancora proferir parola, finché qualcuno –chissà chi- con voce che sembrò camuffata: «È ubriaca!».
Non l’avesse mai detto, Luisella, in un attimo, tirò fuori la pistola tanto cara a papà Luigino, ex piedipiatti, e cominciò a sparare all’impazzata.
Nel fuggifuggi generale persero la vita 6 persone, tra cui mamma Maria, papà Luigino e Jessica, la sua migliore amica, nonostante la pistola fosse caricata a salve.

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