Sintobiografia e sintoscritti di Marilena De Giorgi

 

Sono nata nel Salento quando ancora non era di moda.
Durante il mio primo decennio di vita ho fatto la figlia per corrispondenza: i miei erano emigrati in Svizzera. Quando nel 1970 decisero che fosse giunto il momento del ricongiungimento familiare, per proteggerci dagli episodi di razzismo, iscrissero me e mio fratello, ad una scuola privata italiana a Losanna. Scoprii così all’improvviso d’essere una e trina: straniera, meridionale e povera!
Finito il liceo atterrai come un marziano nella Firenze del ’76, della politica, delle radio libere, quelle libere veramente…
Ci rimasi 12 anni e starei ancora lì a chiedermi cosa fare da grande se la vita non avesse deciso e scelto per me nel trovarmi un lavoro a Ginevra. Son qui da 30 anni e non ho ancora capito se sono il risultato dell’addizione o moltiplicazione o della sottrazione o divisione delle due/tre culture. Ho solo imparato che integrarsi non significa annullarsi ma completarsi a vicenda.

 

 

 

 

 

 

 

Interno cucina/giorno

Da quanto tempo sta seguendo quell’esserino che scoiattola indaffarato da un ramo all’altro?
La tazzina davanti a lei, ancora piena di caffè, è fredda. Non riesce a ricordare il suono della sua voce che saluta il marito o che fa le solite raccomandazioni volanti al figlio.
Si guarda intorno: a parte il gatto, che la guarda stupito mentre aspetta invano l’ ordine di scendere dalla mensola, il solito rassicurante disordine post pranzo. Pensa alla tristezza che trasmetterebbe questa immagine fissata in una foto o in quadro di Hopper. Sorride al pensiero e si sorride.
Si alza, risintonizza la radio che nel frattempo aveva perso la sua debole frequenza. Una musica leggera accompagna i suoi gesti precisi e sicuri che preparano la caffettiera.
È tempo di un buon caffè bollente.
Sorride alla vita.

 

 

 

 

 

 

 

Tema: descrivi una passeggiata della tua infanzia

Svolgimento
Mia nonna non aveva un orologio, ed il suo, quello biologico, era regolato sul fuso orario, ad essere ottimisti, di Londra.
Questo lo capii crescendo. Da piccola, quando mi prendeva per mano, ché non aveva nemmeno la borsetta, ed andavamo al cimitero, non mi facevo domande: anzi mi piaceva!
Mi piaceva attraversare la strada principale del paese, deserta a quell’ora. Mi piaceva sentire i rumori dei preparativi del pranzo al di là delle tende. A quei tempi, durante l’estate, aspettando il vento, molto spesso invocato senza successo, si lasciavano le porte aperte anche la notte.
La nonna, girato l’angolo, cominciava a pregare. Io, per distrarmi camminavo cercando di non toccare il limite dei mattoni del marciapiede, cosicchè ogni tanto ero costretta a saltellare o ad allungare il passo.
Superata Via Roma non c’erano marciapiedi.
Ai bordi della strada cresceva la camomilla che, con tutta tranquillità era riuscita ad approfittare di tutte le fessure del terreno non ancora asfaltato.
Le farfalle con la scusa del corteggiamento non finivano di sniffarla per poi riposarsi sul papavero, che a causa dello scirocco che-non-faceva-muovere-un’-ala, non s’inchinava al nostro passaggio.
I grilli, ringrulliti dal caldo, se la cantavano e se la suonavano come al solito.
Degli alberi nemmen l’ombra… e non è una poesia!
Arrivate al cimitero, ci si avviava verso le tombe dei miei bisnonni. Sistematicamente, ci veniva incontro strascicando i piedi, una “cummare” di nero vestita e con un rosario fra le mani.
A quel punto io e mia nonna ci separavamo. Lei continuava a bisbigliare il rosario con la cummare, con la quale prima di partire, si raccomandava di recitare il numero necessario di preghiere quotidiane, per assicurare ai suoi cari, una buona qualità dell’ eterno riposo. Quello era il suo mestiere.
Io mi aggiravo fra le foto dei defunti che avevo adottato. Non conoscevo nessuno, ma avevo deciso, dal modo in cui mi guardavano, ch’erano contenti di rivedermi.
Al ritorno, mia nonna, alleggerita dall’aver compiuto al meglio il suo dovere di figlia, accelerava il passo.
Il nonno intanto aveva acceso il fuoco, l’acqua cominciava a bollire nella grande cazzarola e le zie avevano finito d’apparecchiare la tavola.

 

 

 

 

 

 

 

Un sorso in più

«Che fregatura i fumetti!» pensavo mentre mi dirigevo alla mia panchina. Nella realtà, non ci sono note di sax che svolazzano libertarie sui tetti. Non c’è nessuna prostituta all’angolo che mi augura la buonanotte, mentre mi offre una sigaretta. Non c’è l’ odore delle brioches appena sfornate. Non c’è uno straccio di Pierrot disperato affacciato alla finestra. Non c’è nemmeno la luna e non solo stanotte.
Un cane che abbaia in lontananza, sì, quello c’è. C’è anche da scansare il vomito di chi mi ha preceduto. Al diavolo i fumetti!
Devo essermi perso. Lo capisco dagli sguardi che non mi riconoscono. La luce dell’ alba scava nei loro visi rughe schifate. La panchina…  troppo tardi per la panchina.
È giorno ormai, ed i fumetti seri vanno a dormire. Io no. Io bevo. Penso a quando un sorso in più mi trascinava nel buco nero del rimorso.
Ora no, non è più così. Eppoi oggi è uno di quei giorni in cui l’ultimo sorso si confonde con il primo.

 

Racconto terzo classificato alla Sintogara “Un sorso in più”

 

 

 

 

 

 

 

La ragazzina con gli occhiali rossi
Opinionpost

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Nel giardino, una rosa solitaria, sopravvissuta all’inverno, si gode la tregua notturna che i gatti hanno firmato con la volpe.
Negli appartamenti, gli adolescenti hanno smesso la loro aria saccente ed impermeabile a qualsivoglia evento terreno.
La ragazzina dagli occhiali rossi era una di loro.
La musica assordante nelle nostre orecchie addormentate, annunciava il suo risveglio.
Il giardino, ricoperto di petali, annunciava il suo passaggio; poche fragole hanno avuto il tempo d’arrossire: troppo invitanti quei fiorellini bianchi… e le more: che bontà mangiarle acerbe!
La ragazzina dagli occhiali rossi non distribuiva sorrisi e carezze di circostanza.
Erano preziosi per chi li riceveva, perché lasciapassare nel suo mondo.
Un mondo ricco di passioni… tanta vita nella sua testa e nel suo corpo, che il suo cuore a volte dimenticava d’essere malato.
Eppoi… gli scatti d’ira: scompariva contrariata e sorda ad ogni mediazione per poi tornare poco dopo sorridendo per ricominciare a mangiare la fonduta insieme a noi.
Era il rituale della nostra piccola tribù, festeggiavamo così ogni progresso ed ogni ritorno a casa dall’ospedale.
Anche questa volta ci credevi, più forte della morfina era il tuo desiderio della prossima vacanza.
Progetti e ancora progetti… anche quando hai detto “Maman c’est difficile!”, sono sicura che stavi pensando al futuro.

 

 

 

 

 

 

 

Da piccola volevo fare cinema

Quando arrivò il mio turno dissi che avrei voluto nascere in via Veneto a Roma; l’anno era quello giusto:1958! Qualcosa andò storto nella trascrizione dei dati, perché mi ritrovai in via Vittorio Veneto, perpendicolare di via Roma d’un paesino pugliese che non avevo minimamente considerato. Ci misi poco a capire che quella donna che mi coccolava, pur bellissima, non fosse un’attrice e che tutto quel via vai non era di comparse sul set, ma di bisnonni, nonni, zie, zii … cugini no! Dall’eccitazione che si respirava capii che stavo inaugurando una nuova generazione. Capii pure che non c’era nessun papà. Non nascosi la mia delusione e ricorsi all’unica forma di disobbedienza civile che potevo permettermi: lo sciopero della fame e della sete… mai eppoi mai avrei rinunciato al mio sogno cinematografico! Passavano i giorni, io felicemente deperivo. Dalla mia, avevo il dottore che dopo avermi degnato d’uno sguardo distratto, si rivolse a mia madre dicendole: «Sei giovane, ne verranno altri!»  poi sussurrò al nonno d’andare ad avvisare il prete. Fra le lacrime del parentado e del vicinato, Don Corrado mi somministrò due sacramenti: il battesimo e l’estrema unzione. Soddisfatta d’aver evitato il temutissimo limbo, pensai, sbagliando, che il più era fatto. Non avevo tenuto conto,invece, della caparbietà di mia madre e di mio padre, che nel frattempo avevo scoperto che lavorava in Svizzera. Quell’uomo, sebbene m’avesse lasciata quando avevo le dimensioni d’un fagiolo, era disposto, così aveva scritto nella lettera, a morir di fame pur di assicurarmi tutte le cure necessarie per la guarigione. Fu così, che uno zio andò a cercare il pediatra più rinomato di quelle contrade. Io, intanto, iniziavo a cedere: mi stavo affezionando a tutti quei personaggi. Il miracolo del pediatra avvenne attraverso il latte in polvere che il farmacista ordinava appositamente per me ed iniezioni, il cui ago, variava di lunghezza e spessore, a seconda di chi raccontava la storia durante i compleanni che seguirono. A quel punto mi rassegnai. Avevo due mesi di tempo per farmi bella per il momento in cui avrei conosciuto finalmente mio padre. Iniziò così la mia vita: con due battesimi (la seconda volta andai io da Don Corrado) e l’estrema unzione incorporata!

 

 

 

 

 

 

 

E tu? Di che segno sei?

C’eravamo: era arrivato il mio turno! Ebbi la netta sensazione che l’amica dell’amica, appassionata d’astrologia e tarocchi, si soffermasse su di me un po’ più del dovuto, nella ricerca vana di qualche indizio che le permettesse di continuare ad esprimersi con successo, come aveva fatto finora con gli altri. I suoi pensieri erano leggibili a tutti…
«E mo’ questa, da dove viene? Terra e Fuoco sono da escludere, Aria…  acqua? Un segno doppio?».
In quel periodo ero talmente timida che per arrossire, bastava che qualcuno guardasse la mia vicina.
Avrei potuto anche scrivere dei trattati sulle punte di tutte le mie scarpe.
Provavo a parlare solo quando avevo qualcosa da dire e le poche volte che succedeva, il tempo di trovare il coraggio necessario, il discorso era stato esaurito; allora soffocavo nella gola, con un colpo di tosse le prime sillabe che si stavano preparando con fatica a prendere aria e ricominciavo diligentemente ad ascoltare.
Per mettere fine alla tortura di quello sguardo indagatore, con tono sommesso e scusandomi con i pianeti per la brutta figura che stavano per fare,
«Sono del Leone –  Dissi.
Senza volerlo ( lo giuro!), diventai motivo d’interesse e di studio;  l’astrologa perplessa, continuò ad indagare.
«Ma di quale decade?»
«Della terza».
Dal suo sorriso capii che era la risposta giusta.
«Si spiegano molte cose!… una vecchia leonessa… e di che giorno?»
«Ventidue».
Fu quello il numero che mi fece fare tombola, infatti sentenziò.
«Cuspide! Leone/Vergine!».
Ancora insaziabile, mi chiese l’ascendente.
«Bilancia…».
Ormai non ne sbagliavo una, tutto tornava: le stelle…  i pianeti…
Con tutti i dati a disposizione cominciò ad oracolare con scioltezza delle mie caratteristiche che lasciavano poco spazio a migliorie future.
Per anni,  io e il mio segno, conducemmo vite dissociate.
Le cose cambiarono il giorno in cui i miei capelli, al grido di “Noi siamo autarchici“, crebbero liberi ed ognuno per conto proprio, e mi ritrovai con una criniera;  lei sì, fieramente leonina e totalmente ingovernabile.
Ora, arrossisco meno di prima; è diminuito il mio interesse per le punte delle scarpe; per reazione a tutte le ore di ascolto accumulate, mi capita di parlare anche quando dovrei tacere e faccio addirittura leggere qualcosa di quel che scrivo…