Sintogara “Finale a sorpresa” – Luglio 2016
Finale a sorpresa del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint- Exupéry
Un aviatore, costretto da un’avaria, ad atterrare in pieno deserto, ad un tratto sente una voce: «Mi disegni, per favore, una pecora?».
Un piccolo principe, proveniente da un asteroide, gli racconta dei suoi viaggi, insegnandogli tante cose…
Di Carmen Pillo
«È successo proprio qui».
Non dissi niente. Restai fermo ad ascoltare.
In quegli otto giorni passati insieme, avevo imparato ad attendere che i suoi pensieri prendessero voce, senza fare domande, in silenzio.
Lasciai che proseguisse il suo discorso:
«Ed è proprio qui, qui dove mi sono perso, che domani passerà l’unica stella in grado di riportarmi a casa.
Solo un anno fa pensavo di non avere altra soluzione e così mi accordai col serpente che, grazie al suo morso velenoso, mi avrebbe aiutato a liberarmi del peso del mio corpo, tanto da farmi diventare così leggero,
da poter viaggiare alla velocità della luce e poter salire sulla stella, attraverso la morte.
Tutto questo doveva accadere domani. Perdere la mia vita in cambio del mio ritorno a casa.
Sarei finalmente tornato dalla mia rosa. Questo era il progetto che a lungo mi ha tenuto compagnia e fin qui mi ha spinto. Ed invece oggi è tutto diverso! Non l’amore che provo per lei,
quello puoi sentirlo anche tu, da lì. È parte di me e con me per sempre starà e vivrà. Portato da soli, un peso, non può che aumentare: così ho imparato da questo viaggio, che non servirà alleggerire il corpo se di piombo si ha l’anima.
L’Astronomo, il Re, il Vanitoso, l’Ubriacone, l’Uomo d’affari, il Lampionaio, il Geografo,
tutti gli uomini che ho incontrato, non posseggono né una scatola con i buchi, né un’amica volpe da ricordare con nostalgia, né una pecora da tenere a bada, tanto meno una rosa, che ha ricevuto l’amore, con le nostre cure.
Hanno cose, hanno regni, hanno monti, corti e valli. Ed è tutto lì, mentre non sanno che il resto del mondo è fuori,
con tutta la sua grande bellezza e che per vederlo, occorre entrarci dentro! Anche questo deserto tanto arido, eppur capace di far brillare le sue dune Sotto il chiarore della luna, “dentro” nasconde pozzi d’acqua inesauribili,
che non solo dissetano. Scoprire un tesoro non serve quando sai che è lì, al sicuro, esiste, custodito per te.
Non occorre vederlo. Sai che c’è. Basta al tuo credere. È il gesto che rende speciale il dono,non il dono in se stesso.
Adesso so che la casa è dove si porta il cuore. Per questo ho deciso di restare».
Il mio Piccolo Principe, esausto, si piegò sulle ginocchia, troppo stanco di quel lungo vagare.
Lo presi tra le braccia, in pochi passi raggiungemmo il pozzo che donò una nuova vita ad entrambi.
Riuscii a sistemare il mio aeroplano e passai tutta la notte a cercare di convincerlo, finché non capii l’importanza
che aveva per lui il suo “disegno”. Il mattino seguente il mio piccolo grande ometto, mi diede le consegne e le ultime istruzioni sul da farsi. Nel salutarci non nascosi le mie lacrime nell’abbracciarlo. Scendevano sul mio viso e sapevano di buono. Mentre decollavo, lo vidi per l’ultima volta. Sventolava la sua sciarpetta salutandomi col più soave dei suoi sorrisi. A volte, ancora oggi, di fronte ad un tramonto o nei momenti
in cui ti prende un senso di malinconia, mi sembra di udire
le sue parole: «Succederà, così come è successo a te, che qualche altro uomo si perderà. Devo restare qui. Dovrò prenderlo per mano e insegnargli tutto dal principio. Dovrà imparare a non dimenticare.
Qualcuno deve esserci che gli faccia ricordare come si disegna un boa che si è mangiato un elefante o come si fa a far entrare una pecora dentro una piccolissima scatola coi buchi». Allora mi alzo e sento forte il bisogno di prenderla
quella scatola con i buchi e il suo coperchio. La porto al petto. Mi sento esattamente come la volpe che al mirar del grano che danza tra i colori del vento, tiene vivo il tuo ricordo.
Mi sento un po’ buffo, ma che fa? E’ solo una scatola.
Poi ci sbircio dentro. E sorridendo penso: «L’ho sempre saputo che non era un cappello!».
Finale a sorpresa di “Anna Karenina”, Lev Tolstoj (1877)
Anna sposata con il freddo funzionario Karenin, si innamora del giovane ufficiale Akeksej Vronskij.
Trova il coraggio di affrontare lo scandalo e abbandona la famiglia per partire con lui per l’Italia, ma piano piano, tra i due sorgono incomprensioni…
di Maria Teresa Dotti
È il treno che s’allontana urlando. Così forte da tracciare un brivido lungo la schiena, la direzione di tutte le sue paure. Sferraglia in lontananza, sempre più piccolo fino a scomparire. Anna fissa le rotaie e poi si guarda attorno, sta posata su un piede solo, nascosto sotto la gonna lunga, come un trampoliere nella palude. La palude dove non sbocciano fiori tra le catene di foglie ma il vuoto, la solitudine e l’incomprensione. Si abbraccia, se lo merita, si appiglia al sospiro che sale dal petto. E s’invola, urtata dal vocio dei viaggiatori e dall’odore della colonia, sfiora mantelli eleganti, bastoni lucidi, cappellini vezzosi. Tornerà Aleksej, domani, come torna ora nei pensieri, come torna l’alba e la speranza ma nulla sarà come prima, i giorni difficili hanno logorato il loro amore, le promesse ormai tradite divorate dalle bocche affamate, le mani fredde perse negli ampi manicotti d’ermellino. A casa, nel buio di uno specchio, le forbici mordono i suoi splendidi capelli. Da domani una nuova Anna, con nuova dignità lascerà tutto e tutti, porterà con se’ una grande valigia vuota, da riempire di buono, da riempire di se’. Una lacrima sigilla la lettera lasciata ai figli, la sola sua eredità, un’ampolla di sale a bruciarle il cuore e nemmeno una parola per gli altri, non capirebbero. Sarà il futuro a parlare di lei, forte d’orgoglio chiude il portone, un vecchio berretto di lana le protegge il capo, corre inciampando nelle scarpe brutte, nei lacci sfilacciati, la notte ha passi pesanti eppure lei vola, come una falena verso la luce.
Finale a sorpresa de “La bella e la bestia”, (La belle et la bête), prima versione edita di Madame Gabrielle Suzanne Barbot de Villeneuve (1740)
Bella, sacrificandosi per suo padre, è costretta a vivere con un principe, trasformato in una bestia da una strega.
La fanciulla però, molto sensibile, va oltre l’aspetto esteriore della bestia, e se ne innamora…
di Ida De Giorgio
Bella entrò correndo nell’atrio del castello e sentì i lamenti sommessi della Bestia provenire dal piano superiore. Si rimproverò ancora una volta per essersi trattenuta troppo a lungo nella casa del padre e si affrettò per raggiungere la scala. La voce la fece trasalire: «Sei proprio certa di fare la scelta giusta?». Una donna era seduta su una poltroncina, nascosta dalla penombra.
Indossava un abito grigio impreziosito da arabeschi dorati e delle ciabattine di velluto rosso. I capelli scuri erano sciolti ai lati del viso mentre la guardava con un sorriso appena accennato.
«Dopo tutta la fatica che ho fatto per dargli quel bell’aspetto…».
Gli occhi di Bella si spalancarono: quella era la strega, la responsabile della maledizione!
«So cosa stai pensando» continuò la donna «mi ritieni il vero mostro, capace di concepire una simile cattiveria. Ma davvero pensi che non ci sia un motivo valido per quello che ho fatto? Prova a riflettere. Come mai sei qui? La bestia ha attirato tuo padre, lo ha ricattato solo per aver colto una rosa per te, ti ha costretto a vivere sola in questo posto così cupo separandoti dalla tua famiglia e minacciando rappresaglie se lo avessi lasciato…».
Un grido di dolore più acuto echeggiò nel castello, Bella salì un paio di gradini.
«Anche con me ha fatto così» la donna si era alzata e si avvicinava alla giovane.
«Io l’ho conosciuto quando era un uomo, ed anche molto bello. All’inizio era gentile, abile conversatore,divertente, generoso, lo è ancora a giudicare dai gioielli e dagli abiti che indossi. Poi è diventato geloso, irascibile, non mi permetteva di vedere più nessuno, mi trattava come fossi di sua proprietà: il mostro dentro di lui è venuto alla luce e così ho deciso di dargli un volto. Ignorava che fossi una maga, lo sciocco non sa di cosa possono essere capaci le donne».
Bella esitava, era tornata convinta di voler sposare la bestia, ma le parole della strega avevano qualcosa di vero. Costretta a vivere sola con lui non distingueva più fra amore e compassione.
Mormorò: «Ma morirà se non resto».
La strega rise: «Ti ha detto così? Povera ingenua, imparerai che gli uomini amano le tragedie, come quando si ammalano: basta un po’ di febbre per farli sentire vicini alla fine. Credi di essere l’unica in grado di spezzare la maledizione? Io ho posto solo la condizione che una donna lo sposasse così com’è. Pensa alle tue avide sorelle, non credi che farebbero carte false per essere al tuo posto? Per loro non farebbe differenza avere accanto un uomo o un animale pur di ottenere quel lusso che desiderano. Ma la bestia è tale nel profondo del cuore e non si accontenta: vuole possedere anche l’anima e la tua, così dolce e gentile, è una preda raffinata».
«Tu, maledetta!» l’urlo fece girare di scatto le due donne, la Bestia correva giù per le scale, i lamenti da moribondo avevano lasciato il posto ad una furia cieca.
«Non ti è bastato torturarmi fino ad ora?. Lei è mia, stalle lontano!» ringhiò.
La strega si limitò a sollevare una mano e il mostro si ripiegò su se stesso uggiolando.
«Allora Bella, sei ancora decisa a restare?» disse la donna «Non preoccuparti di lui, sopravviverà».
Bella guardò la Bestia tremante, poi il castello tetro rischiarato solo dalla luce delle candele; si voltò, il portone era spalancato sul giardino illuminato dal sole, il vento portava all’interno il profumo delle rose e il cinguettio degli uccelli. Si sfilò la collana e gli orecchini e li fece cadere sul pavimento poi sollevò il vestito e corse leggera verso la libertà.
Finale a sorpresa di “Biancaneve e i sette nani”, Wilhelm e Jacob Grimm (1812)
Biancaneve, soave fanciulla, è perseguitata dalla matrigna, una strega cattiva, ossessionata dalla bellezza esteriore. La poverina, graziata, per pietà, dal cacciatore che avrebbe dovuto ucciderla, fugge, riparandosi nella casetta dove vivono sette nanetti; ma la strega, scoprendo il suo nascondiglio, riesce ad avvelenarla, facendole mordere una mela stregata…
di Marco Fidilio
Biancaneve giaceva morta in una bara di vetro e i sette nani piangevano.
All’improvviso arrivò un principe azzurro su un cavallo bianco; si innamorò della fanciulla, e chiese ai nani di aprire la bara. Essi la aprirono e il principe la baciò.
Biancaneve si risvegliò e fece per salire sul cavallo per andarsene col principe. «E no ca…o!» Urlarono tutti insieme i nani «Noi siamo stati per tutto il tempo della favola a proteggerti, a difenderti ed amarti , e ora te ne vai con un principe azzurro qualsiasi? Ma da dove spunta questo? Dove è stato finora? Noi ci siamo fatti un culo così, a lavorare e a cantare , e poi arriva questo e se la porta via? Sempre uguali le donne! Uno si fa in quattro e loro se ne vanno col primo venuto! Chi ca..o è questo?».
Così dicendo, i sette nani picchiarono il principe, e lo mandarono via.
Chiusero in casa Biancaneve a sbrigare tutte le faccende, preparare il pranzo e fare le pulizie.
Così vissero felici e contenti .
Finale a sorpresa de “La metamorfosi”, Franz Kafka (1915)
Gregor Samsa, è un commesso viaggiatore che una mattina si sveglia e scopre di aver assunto le fattezze di uno scarafaggio…
di Cettina Silvani
Cauto mi muovo, tra queste mura, un tempo sorelle, oggi straniere.
L’odore del pattume mi piace, nauseabondo mi assale l’acido del latte che, pietosamente, mi è stato versato.
Rifuggo dalla luce. Mi ritraggo, in questa immonda corrazza crostacea.
Tutto è diverso da qui.
Guardo la mia famiglia.
Come chiamare madre, padre, sorella, se non sei più ramo.
Ciò che è diverso l’umanità non riconosce.
Forse ho voluto vedere fino in fondo, sono sceso agli inferi dell’anima.
La cecità degli uomini non ha le mie antenne.
Il piede umano che mi schiaccia, mi aiuta a fondermi con la terra
per rinascere.
Finale a sorpresa de “Il processo”, Franz Kafka (1914/17)
Josef K., impiegato di banca, è costretto ad affrontare un processo e viene condannato a morte, senza conoscerne le ragioni…
di Graziella Dimilito
Josef K. vide i due uomini, capì che era giunta la sua ora, lo avrebbero ucciso, giustiziato. Li seguì docilmente, rassegnato.
Il tribunale lo aveva condannato a morte e non sapeva perché. Nessun capo d’imputazione.
Durante il processo farsa, aveva protestato vivacemente contro la burocrazia mastodontica e la corruzione degli avvocati, accelerando probabilmente la sua fine.
I due uomini lo portarono presso una cava, lo fecero sedere. Uno di loro estrasse un grosso coltello ma, era una sua impressione o gli aveva fatto l’occhiolino? L’altro lo afferrò per la gola, immobilizzandolo.
L’uomo col coltello vibrò un preciso fendente al cuore del suo compagno, sotto gli occhi esterrefatti di Josef K.
«Vieni con me» gli sussurrò «un amico ci aspetta per portarci via da questo paese maledetto».
«Ma… ci braccheranno!» disse Josef tremando.
«Sì, forse moriremo, ma non come cani, bensì a testa alta, lottando per la libertà!».
Finale a sorpresa di “Cenerentola”, fiaba popolare. Secondo alcuni, proveniente dalla Cina, secondo altri, dall’antico Egitto.
Cenerentola, una bellissima giovane, dopo la morte del padre, viene schiavizzata dalla matrigna e dalle sue figlie.
Grazie all’aiuto di una fata, partecipa al ballo di corte, durante il quale, il principe
si innamora di lei.
Scappando per tornare a casa, prima che finisca l’incantesimo, perde una scarpetta di cristallo.
Il Principe, che la insegue la raccoglie.
Il giorno seguente, proclama che sposerà la fanciulla a cui calzerà perfettamente tale scarpina.
Gli incaricati del Principe girano per il regno, facendo provare la scarpina di cristallo a tutte le fanciulle.
La matrigna e le sorellastre di Cenerentola, cercano di ingannarli…
di Pino Lombardi
Allora voltò il cavallo e riportò a casa la falsa sposa.
«Questa non è quella vera» disse.
«Non avete un’altra figlia?»
«No» rispose la matrigna.
«C’è soltanto una piccola brutta Cenerentola, del marito che mi è morto: ma non può essere la sposa».
Il principe allora disperato, chinò il capo e scagliò via la scarpina di cristallo, che si ruppe in mille pezzi, riprendendo le sembianze di uno zoccolo lercio e consumato; allora capì d’esser stato truffato, risalì a cavallo e avviandosi al castello, in cuor suo giurò e rigiurò, che mai e poi mai avrebbe ancora amato.
I giorni passarono tristi e tutti uguali, per il giovane aristocratico, che il cuore suo avea segnato, da quell’inganno mal celato, fin quando un giorno, tra la servitù, scoprì una“piccola brutta Cenerentola”, che le parve dolce e come lui dal cuor velato di quell’ombra che anch’egli fino a quel dì, aveva mal sopportato.
Ordinò quindi, che ad ella e ad ella solamente, venisse affidato di occuparsi delle cose del Principe in privato. Cenerentola che mai aveva smesso e in cuor suo sperato, di poter un giorno viver al fianco del suo amato, mai rivelò al Principe d’averlo a quella festa ingannato, per il solo motivo di vederlo felice ed innamorato, non certo per esser la Regina di tutto quel creato.
Divenne quindi la sua fedele compagna, non Regina o Principessa, ma sincera amica e confidente, ed il Principe trascorrendo giorni e notti insieme a lei, ritrovò con il sorriso, anche la gioia persa in quella mezzanotte del Gran Ballo. Passaron così il resto della vita… a contarsi insieme le rughe sulle dita.
Finale a sorpresa de “La vita è bella”, film, Roberto Benigni (1997)
Guido, ebreo deportato in un lager con la sua famiglia, cerca di proteggere il figlio, Giosuè, dagli orrori della guerra, facendogli credere che stanno partecipando ad un gioco a premi, il cui vincitore si aggiudicherà un vero carro armato.
Il piccolo entra attivamente nel vivo del “gioco”, tra le cui “regole” c’è quella di rimanere nascosti…
di Valentina Carinato
Ultima sera al lager, ultime ore di terrore.
Gli americani stanno arrivando ma nel frattempo i tedeschi si muovono freneticamente, impazziti. Tentano di fuggire e di sterminare ancora qualche ebreo. Guido pensa di fuggire o meglio vuole fuggire con Giosuè e Dora la sua amata principessa oggetto dei suoi sogni. Giosuè partecipa concitato, obbedisce al padre immaginando di essere come i suoi eroi preferiti. Super Giosuè voleva rivedere la sua mamma, vincere un carro armato e perché no, mangiare un panino con la marmellata. Guido con sguardi furtivi ed il cuore a mille teneva stretto il suo ometto, qui la posta è troppo alta! Penso fra se e poi via di nuovo come gatti. Dall’altra parte nella zona femminile Dora saliva le scale in cerca di un cantuccio, un angolo per pregare. Si poteva pregare in una situazione del genere? E pregare chi?Dov’è Dio? Pregò con la forza della mente sperando di far sentire il suo grido disperato. Lungo il tragitto Guido vide una fossa di cadaveri. Il rumore degli spari annunciava il pericolo. Guido dovette separarsi da Giosuè, lo nascose in una cabina: «Adesso tu stai qui fermo, immobile, non ti devi muovere. Qualunque cosa succeda»
«Va bene, babbo. E tu dove vai?»
«Non ti preoccupare, è parte del gioco»
«Va bene babbo».
Il tedesco era ormai arrivato, braccò Guido in un angolo. Sudava freddo Guido, il cuore andava a tremila, no a cinquemila. Andava. Il tedesco lo condusse lontano, fuori dal lager. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e parlava in modo strano, stranamente dolce. Ad un certo punto si udì uno sparo, un altro ed il gocciolio copioso di sangue. Sangue tedesco il cui corpo barcollava ormai sfacciato. Sbaglio di persona, di mira? Colpo di fortuna e di grazia! Guido era salvo, cercò un angolo nascosto fra gli alberi ed attese il mattino. Il mattino arrivò e Gioele si affidò alle braccia forti di un americano gentile e profumato. Si lasciò prendere in braccio. Fuori dal cancello Dora lo abbracciò commossa e sollevata. Il suo bambino stava bene! Smagrito, sudicio ma chiacchierone: «Mamma, mamma! Dove sei stata in tutto questo tempo?»
«A lavorare con tante signore carine».
«Io e papà abbiamo fatto un gioco»
«Ah si? E che gioco era?»
«Un gioco di silenzi, di nascondigli».
«Buongiorno Principessa!» Eccolo Guido a bordo di un carro armato.
«Papà, abbiamo vinto!»
«Si figliolo abbiamo vinto, salite presto!».
Un carro armato tedesco abbandonato, rubato o chissà? Rappresentava la vittoria, il sogno di Giosuè e la preghiera di Dora. Una nuova vita dopo la guerra, la rivincita.
Evviva gli americani!
Viva la brava gente e l’amore, unico motivo per cui combattere.
Finale a sorpresa de “Il giovane Holden”, (The Catcher in the Rye), J.D. Salinger (1951)
Holden Caulfield, un sedicenne americano proveniente da una famiglia benestante, espulso dal college, decide di intraprendere il suo viaggio nel mondo degli adulti, alla ricerca della libertà…
di Francesco Colaci
La pioggia scendeva fitta, ancora un minuto sulla panchina senza riparo e mi sarei sciolto come neve al sole.
Mi alzai con l’intento di ripararmi sotto la tettoia della giostra, attendere che Foebe scendesse dal cavalluccio e tornarcene a casa, come promesso.
Ma nel bel mezzo del percorso, mi scontrai con una pelliccia di visone il cui viso mi sembrava familiare.
«Zia Mame» dissi «sei proprio tu?»
«Caro nipote, che bello rivederti, vieni su, svelto!»
«Ho la buick parcheggiata a due passi».
Mentre mi diceva così, mi prese per mano e in men che non si dica, ero seduto accanto a lei, in macchina.
«Sai» mi disse mentre guidava «stavo partecipando ad una manifestazione in difesa degli animali in gabbia, poi quest’improvviso temporale ha rovinato tutto».
La zia era bella e molto simpatica, nonostante i miei genitori avessero tutt’altra opinione. La giudicavano un tantino frivola, “incoerente”, poi non era sposata, pur avendo superato la trentina, senza alcuna occupazione specifica; tuttavia, il suo tenore di vita era di gran lunga superiore al nostro.
Abitava in un palazzo stile Liberty, ad un isolato dalla sede universitaria; nel suo salotto transitavano studentesse, intellettuali, imprenditori facoltosi, deputati,aspiranti attrici, eccetera eccetera; jazz, blues, champagne e tutto quanto il resto erano ospiti fissi.
Entrando in casa, mi presentò ai suoi ospiti, zia Mame sembrava orgogliosa di me. Ragazzi! Quanta bella “fauna” circolava, non c’è che dire!
Ma non ero dell’umore giusto, pioveva ancora e il mio pensiero ritornò alla vecchia Foebe, questa volta l’avevo fatta grossa: abbandonarla mentre la giostra ancora girava, senza neanche un ciao, o chessò io.
Con questi cattivi pensieri sprofondai su uno dei divani, chinai il capo e portai il palmo della mano sulla fronte.
«Scotta?» Mi domandò un signore che zia mi aveva presentato ma di cui non ricordavo più il nome.
Per tutta risposta gli chiesi se mi offriva una sigaretta, poi aggiunsi: «No, no… sto bene, è solo che mi hanno cacciato dal college e non so come dirlo ai miei».
Lui mi sorrise, non mi diede consigli, ma cominciammo a chiacchierare più del più che del meno.
Entrambi evitammo i però, i perché, i senza se e i senza ma; facemmo incetta di eccetera eccetera, di compagnia bella e di vattelappesca.
Il tono della nostra voce navigava sulle stesse onde, senza imbarcare acqua, con l’orecchio sempre teso a non perdere neanche una nota dell’ultimo disco di Muddy Waters.
Stavamo ancora dondolando al ritmo di Mannish boy, quando vidi zia Mame avviarsi verso la porta d’ingresso ed aprirla.
Dalla mia postazione mi sembrò di scorgere un doppio petto grigio e un tailleur di fustagno blu mare che, stazionando sull’uscio dell’appartamento, iniziarono a gesticolare animatamente con la padrona di casa.
Ebbi un brutto presentimento dopo che, voltandosi verso di me, zia fece cenno di avvicinarmi.
Non mi sbagliavo, fui accolto da un perentorio “a casa facciamo i conti!” di mia madre.
A testa bassa e senza fiatare mi consegnai ai miei.
Potrei raccontarvi, ora, di quel che successe nei giorni seguenti al mio rientro all’ovile, ma non ne ho tanta voglia.
Vi dirò solo che quella sera, chiuso in camera, scrissi l’epilogo del libro.
L’Editore -anche lui!- mi aveva imposto con garbo di “fare i conti con le parole”, che non dovevano superare le 600. Cominciai allora a contarle, ma quando arrivavo a circa la metà, andavo in confusione, almeno una decina mi scappavano, tutte le volte!
Ricominciai così da capo più volte e per l’intera notte.
Che notte, ragazzi!
Finale a sorpresa de “Le notti bianche”, Fëdor Dostoevskij (1848)
Un sognatore, isolato dalla realtà, durante una passeggiata notturna, sul lungofiume di San Pietroburgo, incontra Nasten’ka, una ragazza che risveglia in lui il sentimento dell’amore.
Si raccontano l’uno con l’altro per due notti.
Nastenka ha già il suo amore, che aspetta con ansia, pur provando bei sentimenti anche per il sognatore, a cui affida l’incarico di inviare una lettera al suo amato, scomparso tempo addietro, per un ultimo tentativo di ritrovarlo.
La terza notte i due non si vedono a causa della pioggia.
La quarta notte…
di Vittoria Alices
Notte quarta
Ero molto agitato.
Andavo avanti e indietro nel corridoio, in attesa che si facessero le 20.55, per arrivare all’appuntamento alle 21.00 in punto.
Matrëna spolverava, o meglio, con la sua solita calma, faceva danzare lo straccetto, grigio di sudiciume, da un lato ad un altro, sfiorando appena i mobili, e mi guardava di sottecchi.
«Vi preparo una camomilla» disse ad un tratto «prima che consumiate tutto il pavimento».
Guardai a terra, le mattonelle le davano ragione: quelle rigature nere, dovute al consumo, sembravano imprecare contro me.
C’erano sorrisini sghignazzanti, espressioni tristi, bocche rivolte verso il basso. Avete presente, quando ci si ferma a guardare le figure che formano le striature del pavimento? A volte individuo mostri, o anche belle signorine.
Stavolta vidi bocche, e nessuna mi sembrò sorridente.
Mi distolse Matrëna, porgendomi la tazza. Quasi mi ustionai il labbro, tanto era bollente.
Non ero solito imprecare, ma quella volta lo feci.
«Accidenti Matrëna!» quasi alzai la voce. Ma Matrëna, col suo straccetto danzante, non era più nel corridoio;
sgattaiolata in cucina, fingeva di essere affaccendata.
Schioccarono finalmente le 20.55.
Ringraziai Matrëna, con un accenno di sorriso alle spalle, di avermi aiutato a far passare quel tempo più in fretta, salutai, con lo sguardo, il ragnetto che vive all’angolo superiore destro della nostra porta d’ingresso, tirai un respiro profondo, ed uscii.
L’aria era fresca, ma gradevole; un venticello leggero, silenzioso, sfiorava palazzi e lampioni, che si crogiolavano al suo passaggio.
Nella piccola aiula di un palazzo, i fiori socchiusi, che solo a primavera San Pietropurgo sfoggia in tal modo, cullandosi, formavano scie colorate, e le chiome degli alberi ondeggiavano felici, approfittando della leggerezza dell’aria. Accelerai il passo, e voltato l’angolo, la vidi: poggiata alla ringhiera, sul canale, come la prima volta.
Provai le medesime sensazioni del nostro primo incontro. Fu bello, tanto che, pur di prolungarle, mi nascosi dietro il lampione.
Tutto, mi sembrava strano, persino il ferro nero del lampione, mio complice, era nuovo, partecipava ai miei sussulti, tant’è che, per due volte, si spense, per poi riaccendersi immediatamente.
Mi chiesi se avessi mai toccato un lampione con attenzione.
«Ma quante domande!».
Non me ne spiegavo la ragione. Nasten’ka era lì, davanti a me, da sola; buon segno, che Dio mi perdoni!
Fingendo di essere appena arrivato, la chiamai con voce calibrata.
Lei, girandosi di scatto, senza neanche accennare un saluto: «Avete la lettera? Avete la lettera?».
«La lettera? Ma non è ancora venuto? Non è venuto?» Risposi con un’altra domanda.
Ero contento, ma non lo mostrai.
Nasten’ka delusa, invece, si lasciò cadere tra le mie braccia, singhiozzando: «Solo un’illusione questo amore! Non verrà, non verrà mai!».
Quasi urlava, come mai l’avevo veduta fare. Non godei del suo dolore, soffrii con lei.
Le sfiorai i capelli.
Lui arrivò. Capii chi fosse, dall’ improvviso pallore sul viso di Nasten’ka
Tremavo, insieme a lei. Tremavamo.
«Nasten’ka!» Gridò costui, con una sicurezza strana, molto strana, per un uomo che di Nasten’ka, mio caro lettore, conosceva ben poco.
Ma appariva raggiante, luminoso; mi sembrò un angelo, un’apparizione celeste; forse perché aveva la luce del lampione alle spalle, dico ora. Ma avevo provato le stesse emozioni della mia amata, eravamo stati tutt’uno.
Mi sarebbe bastato, forse; ma il destino, volle premiare il nostro amore, fermandolo lì.
Nasten’ka sparì.
Non sapemmo mai dove fosse finita, né io, né l’altro;
Non osammo guadare nel canale.
Ma io so che mi ama, ovunque ella sia.
E lei sa di me.
finale a sorpresa de”Il vecchio e il mare”, Ernest Hemingway (1952)
Santiago, un vecchio pescatore cubano, esce per mare ma torna sempre a mani vuote. Il giovane Manolin, affezionato a lui, continua a frequentarlo, nonostante il divieto dei suoi genitori.
Un giorno Santiago decide di mettere fine agli esiti negativi delle sue battute di pesca e si avventura, da solo, in mare aperto.
Inizia una lunga battaglia con un gigantesco marlin…
di Nino Giammanco
Era in mare ormai da troppi giorni. Il grosso pesce cominciava a mostrare i segni degli impietosi morsi dei pescecani, che lo avevano già dimezzato nella parte inferiore, quella più sommersa. Nella parte superiore del pesce i segni di morsi causati da pesci più piccoli e agili. Eppure sembrava non sentire la fragilità dovuta ai suoi tanti anni. La dura lotta instaurata col marlin gli aveva distrutto le mani e la mente. La notte appena passata era crollato in un lungo sonno agitato, colmo di sogni deliranti, che lui viveva con reale intensità. Si vedeva giovane e forte, lottare con le unghie e con i denti contro mostri affamati e voraci. Quando aveva riaperto gli occhi una strana sensazione di potenza lo pervadeva. Aveva dimenticato la fame e la sete che lo torturavano ormai insistentemente. Guardò con rinnovata speranza l’orizzonte, interpretando disegni di nuvole basse come terra promessa. Sollevandosi osservo la sua preda ormai più che dimezzata. «Maledetti!» pensò «non riuscirete a finirlo!». Si toccò il viso, la lunga barba era umida e calda, i capelli increspati dal sole e dal mare. L’odore pungente della carne putrefatta gli penetrava il cervello. Col lungo bastone in mano picchiò selvaggiamente due squali venuti a banchettare. Si sentiva forte, gagliardo, avrebbe sfidato i predatori anche in acqua se avesse avuto trent’anni di meno. E ancora si vide nel mezzo di epiche lotte nei mari in tempesta a raddrizzare la barca, a tendere ormeggi per sfidare il vento, e uscirne col petto gonfio e la spavalderia degli onnipotenti. Troppe ne avevano viste i suoi occhi annacquati che ora perdevano lacrime che si incanalavano nelle profonde rughe tracciate dal sale. Il sole ripercorse la volta, girò il capo per vederlo perdersi nel profondo, come se ancora una volta volesse vedere il ribollio dei natanti che affondano. Fu lui invece a sprofondare ancora una volta nell’incoscienza , nel mondo diverso, fantasioso, dei sogni. Ancora una volta lottò, col suo bastone allontanava i mostri mentre azzannavano al collo i suoi marinai compagni di sventure e avventure nei caldi mari del sud. Si svegliò di soprassalto, presagendo qualcosa. Era l’alba, ad est una tiepida luce tingeva la notte di mille sfumature di giallo. Ancora una volta si sentì forte, potente, pronto a ogni sfida ulteriore. Guardò il suo enorme pesce, di cui rimanevano ormai poche parti carnose. Anche la parte superiore era ormai all’osso, ma non se ne curò. Il sole tardò a uscire, poi mise fuori la testa come scrollandosi di dosso residui di fumo, sembrava increspato. Osservò meglio pulendosi gli occhi. Davanti al sole, bassa all’orizzonte, si stagliava la terra, la sua terra! Eccola, pesce. Ti porto a casa. Stasera tutti vedranno di cosa sono stato capace. Manolo sarà orgoglioso di me. Il giorno trascorse fra dormiveglia e momenti di gioia, quasi si scordò del suo passeggero, tranne sognarlo nei momenti di incoscienza. Al tramonto fu sulla spiaggia. Manolo e gli altri gli si fecero incontro e videro il volto e i capelli arrossati di sangue, e sulla carcassa residui brandelli di carne addentata dalla piccola bocca del vecchio. Aveva mangiato e bevuto il suo pesce.”
Finale a sorpresa de “La noia”, Alberto Moravia (1960)
Dino, un uomo assillato dalla noia per tutto ciò che lo circonda, compresa la pittura, a cui era stato appassionato, incontra Cecilia, incaparbendosi per lei. Cecilia frequenta anche un altro uomo, con cui parte per Ponza, usando i soldi che le aveva dato lo stesso Dino…
di Marcello Vi
… Ora sono qui, nel giardino all’italiana della villa di Via Appia, seduto sotto la pergola, circondato dalle aiuole, dagli alberelli tagliati a palla perfettamente curati, dai viali e vialetti ghiaiati.
È notte ed il cielo è nero e senza stelle. Sono in compagnia di Cecilia.
O meglio, dell’immagine di Cecilia, del quadro che oggi ho dipinto e che la raffigura. È circa una settimana che sono stato dimesso dall’ospedale e nel pomeriggio Cecilia è venuta a trovarmi presso l’appartamento di Via Margutta. Sedevo sul divano, avvolto dalla noia che mai mi abbandona, quando ho sentito suonare alla porta ed ho riconosciuto il caratteristico leggero scampanellio. Allora mi sono precipitato ad aprire e me la sono trovata davanti. Non l’avevo più sentita, da quando è partita per Ponza con Luciani, il suo amante; probabilmente non ha neanche saputo dell’incidente. Infatti, come se ci fossimo visti solo qualche ora prima, ha appoggiato delicatamente le sue labbra alle mie, poi è andata ad accomodarsi sul divano ed ha cominciato, lentamente, a spogliarsi. Avrei voluto chiederle dei suoi quindici giorni al mare, ma Cecilia, credo intuendo le mie intenzioni, come di consueto riluttante a parlare di se stessa, mi ha anticipato. <<Voglio posare per te>>, mi ha detto, con una sicurezza ed una decisione per lei inconsuete. Così ho preso una tela pulita – la stessa tela che misi sul cavalletto in sostituzione di quella che lacerai quando decisi di smettere di dipingere – ed ho cominciato a ritrarre Cecilia. Ho dipinto le sue gracili spalle, rimarcandone il contrasto con il procace e abbondante seno, gli allettanti e generosi fianchi, la vita così snella e candida, i capelli crespi e folti. Infine, ho disegnato il suo volto, infantile ma reso maturo dalle sottili rughe agli angoli della bocca e, mentre disegnavo Cecilia, durante le oltre cinque ore di lavoro, forse per la prima volta, l’ho sentita davvero mia. Completamente ed indiscutibilmente mia. Mio il suo corpo, mio il suo sguardo innocente ed incuriosito, mio il suo silenzio. Ciò che non sono riuscito ad ottenere con l’atto sessuale o con il denaro o con il matrimonio, l’ho raggiunto attraverso la pittura: ho posseduto Cecilia, dipingendola. Tuttavia, ero consapevole del fatto che quel possesso poteva essere solo temporaneo; reale, non illusorio, ma a scadenza. Terminato il quadro, infatti, dentro di me, ho sentito ancora una volta Cecilia allontanarsi. Stava nuovamente diventando sfuggente e inafferrabile. Così sono andato in cucina, ho preso un coltello e mi sono scagliato contro Cecilia. Le ho piantato il coltello nel petto, con forza e determinazione. È stato un gesto lucido e consapevole: volevo fermare quel momento, uccidendola volevo rendere definitiva la sua sottomissione a me. E, mentre giravo il coltello nel suo corpo, ho percepito il suo abbandono, la sua mancanza di voglia di lottare, la sua arrendevolezza. In quell’istante ho capito finalmente Cecilia: nonostante la giovane età, era stanca di vivere. Ed ho capito che davvero ho amato quella donna-bambina. L’ho amata di un amore forse ossessivo, ma completo. Ed ora sono qui, seduto sotto la pergola del giardino della villa di Via Appia, davanti agli occhi l’immagine di Cecilia illuminata ad intermittenza dai lampi di un lontano temporale. Non mi resta che una cosa da fare: completare il quadro, disegnando me stesso accanto alla donna che ho amato. Mi rappresenterò di dimensioni più piccole, giacché in fondo, anche se né io né lei abbiamo mai voluto ammetterlo, nel nostro rapporto, è stata Cecilia a dominare me, non viceversa. Poi, potrò lasciare il nero della mia esistenza. Perché anch’io, esattamente come Cecilia, sono stanco della mia vita e, quindi, continuare a frequentarla sarebbe inutile e ridondante.
Finale a sorpresa de “La strada”, Federico Fellini (1957)
L’ingenua Gelsomina è venduta a Zampanò, rozzo girovago che si esibisce nei paesini con giochi di forza…/
di Maria Rosa Oneto
Gelsomina, colpita da fragilità innata e incapace a far del male, un bel giorno si rende conto che continuare a vivere con Zampanò non era più possibile.
Costui, uomo rozzo e incivile, se ne serviva a proprio uso e costume; trascinandola da un paesino all’altro dove si esibiva, tronfio della propria forza fisica.
La povera creatura, preda di un destino malvagio e crudele, non sapeva darsi pace e neppure reagire. Zampanò, la umiliava, la trattava male, se ne serviva alla stregua di un cane.
Quando arrivò in quella specie di circo viaggiante, un acrobata-filosofo, detto il “Matto”, Gelsomina, cominciò a sperare, a credere nella vita, a intravedere un futuro meno amaro.
Insieme decidono di fuggire, di andare all’avventura; così senza troppi pensieri.
Nottetempo, il Matto convince Zampanò in una sfida a bicchieri di vino.
Chi fosse stramazzato a terra per primo, si sarebbe presa Gelsomina e ne avrebbe fatto ciò che avrebbe voluto. Zampanò, accetta la sfida convinto di superarla facilmente.
Seduti in un angolo della vecchia roulotte, i due uomini, iniziano a bere. Un bicchiere dopo l’altro quasi senza prendere fiato.
Di nascosto, Gelsomina, osserva la scena, si sfrega le mani, pregustando la gioia di essere libera e felice. Dopo circa un’ora, nonostante la magrezza e la prestanza malferma del Matto, Zampanò, cade a terra strafatto.
Un lungo e profondo russare lo tengono inchiodato al pavimento per ore. Gelsomina, gioiosa e confortata, si lascia prendere per mano dal Matto e in piena notte iniziano a camminare su una strada polverosa.
La luna, da lontano, rischiara i passi di queste due sagome indistinte che vanno alla ricerca del nulla.
A un tratto sul loro cammino compare un agricoltore che sul far dell’alba, inforcando un’ape malandata, sta recandosi nei campi a lavorare.
«Ehi voi due, dove state andando, volete un passaggio?»
«Grazie, magari, rispondono in coro i due giovani!» Salendo sull’ape «Vogliamo vedere il mare» risponde il Matto ridendo.
«Gelsomina non l’ha mai visto ed io neppure!».
«Il contadino si rende conto di essere davanti a due persone un po’ strampalate.
«Sentite ragazzi» risponde l’agricoltore «il mare è molto lontano e io vado in un’altra direzione».
«Se volete qui vicino, c’è un casolare, dove vivono persone di entrambi i sessi che cantano e ballano dalla mattina alla sera e si divertono un sacco. Vi piacerebbe andarci?»
«Sì sì certo» risponde prima Gelsomina. E poi il “Matto”, battendo le mani:
«Anche se non abbiamo denari!»
«Nessuna paura!» risponde il contadino.
«Là è tutto gratis, non ci vogliono soldi o altro. Tutto viene dato gratuitamente e non servono gli spiccioli».
Gelsomina e il Matto scesi dall’ape si avviano verso il casolare indicato dall’agricoltore. Zampanò, colto da ictus, muore solo nella sua roulotte.
La dimora in questione, senza porte e finestre, si ergeva nel mezzo di un giardino fiorito, ove alloggiava una fontana colma di pesci rossi. Varie persone, alcune vestite in modo strambo, altre mezze nude: ballano, cantano, fan giochi di equilibrismo e magia.
Una musica dolce e soave si spande nell’aria. Un profumo tenero d’amore riempie i pensieri di pace e bontà infinita.
Nessuno è triste, arrabbiato o scontroso.
Il “Matto” inizia a fare acrobazie, a filosofare con tono baritonale.
Gelsomina, non più timida e remissiva, toltosi il logoro pastrano, si mette a danzare tra il cinguettio degli uccellini che annunciavano il sole.
In quella “Casa della Speranza” ove ogni sogno si avverava, nessuno si sentiva inferiore, giudicato, escluso.
Per la prima volta da quando era al mondo Gelsomina, aveva capito di avere un cuore grande, un’anima pura in grado di credere e volare.
Finale a sorpresa di “Alice nel paese delle meraviglie”, Charles Lutwidge Dodgson, sotto pseudonimo di Lewis Carroll (1865)
Sognando di seguire un coniglio bianco, Alice cade in un mondo sotterraneo, fatto di paradossi, di assurdità e di nonsensi.
Nella sua caccia al coniglio le accadono le più improbabili disavventure…
di Maria La Bianca
Alice vide le carte da gioco farsi sempre più piccole e sentì qualcosa sfiorarle il viso. Foglie, sembravano proprio le foglie che cadevano ai piedi dell’albero sotto il quale si era addormentata. Fu un attimo. Serrò con forza gli occhi e i pugni ripetendosi che no, non si sarebbe svegliata, non ancora. Lasciò che la voce di richiamo di sua sorella si perdesse come in un sogno. Allungò una mano e afferrò quella del fante di cuori che le si era materializzato davanti. «Non potete continuare a dipingere di rosso le rose che sono bianche» gli disse.
Il fante tremava e balbettava parole sconnesse: «Sì, ma, vedi, la regina…»
«Non c’è nessuna regina» disse Alice «se non nella tua testa. E non è perdendola che sconfiggerai le tue paure».
Dai cespugli spuntarono, ad una ad una, le teste dei giardinieri che annuivano, sorpresi della loro stessa audacia.
«Ecco cosa faremo» esclamò Alice «ognuno di voi pianterà le rose del colore che più gli aggrada, e io starò qui, a fare la guardia, finché non saranno sbocciate. Voi intanto vedrete di dare una bella pulita a tutte quelle rose, invece di stare a pensare a quello che potrebbe accadere. D’accordo?».
I giardinieri si guardarono con occhi interrogativi ma nessuno ebbe il coraggio di deludere la fiducia che Alice riponeva nella sua azzardata idea e si misero all’opera. Il nuovo roseto fu presto piantato e su quello vecchio cominciavano a splendere candidi petali. Il tempo, rifletteva Alice, devo riuscire a far passare il tempo. Fu allora che, correndo come al suo solito, passò il Bianconiglio. Alice non ci pensò due volte e lo bloccò con un gesto perentorio della mano: «Non è tardi per niente» lo precedette, lasciandolo immobile a bocca aperta.
«Qui abbiamo bisogno del suo tempo, se vuole essere cosi gentile da prestarcelo».
Neanche il Bianconiglio osò contraddire quella ragazzina che lo apostrofava con fare così impertinente e lasciò che girasse velocemente le lancette dell’orologio che, senza nemmeno accorgersene, le aveva già offerto. Non aveva più tanta fretta, stupito dal fiorire variopinto delle rose tra gli applausi di fanti e giardinieri con la testa ben piantata sul collo. Alice era proprio soddisfatta. Sì, quello era proprio il più bel giorno di non compleanno che le fosse capitato di vivere. Era l’ora del tè, ma non c’era bisogno di bere e mangiare per avere la misura giusta. Finalmente poteva svegliarsi.
Finale a sorpresa di “Titanic”, James Cameron (1997)
Il cacciatore di tesori Brock Lovett durante una spedizione, per recuperare dal relitto del transatlantico Titanic, “Il Cuore dell’Oceano”, ossia un diamante unico al mondo, rinviene, in un baule, il ritratto di una donna.
Scopertane l’dentità, la trova: si tratta di Rose, uno dei pochi superstiti del naufragio del Titanic.
L’anziana donna, accetta di raccontare la propria esperienza sul Titanic, e la storia d’amore, emozionando i suoi interlocutori, in particolare Brock Lovett…
di Giulia Valente
Una vita spesa alla ricerca di tesori!
Doveva arrivare un’anziana signora a fare capire a Lovett l’assurdità di tutto questo.
Amori, passioni, segreti, emozioni… quante cose si era perso per colpa di qualche stupida pietra?
Era però arrivato il momento di voltare pagina.
Aveva appena salutato sul ponte della nave Rose, con un abbraccio pieno di riconoscenza e consapevolezza.
Sentire il suo racconto era stato come ricevere una sferzata di energia, unita al rimpianto di tutte le cose che nel frattempo si era lasciato, volutamente, sfuggire di mano.
si era limitata a dirgli: «Ammettilo che ti ho salvato, come lui ha salvato me! E ora vai: comincia a vivere!».
Tornando alla cabina, stava riflettendo su questa sua ultima frase.
Mise le mani nella tasca della giacca, per cercare la chiave, e solo allora si accorse che c’era dell’altro.
Riconobbe subito il foulard di seta di Rose. Lo aveva usato per avvolgere… non poteva crederci!!
Il cuore cominciò a pulsargli a un ritmo sconosciuto e le mani a tremare come non mai.
Gli occhi lucidi dall’emozione riuscivano comunque a mettere a fuoco il blu assolutamente unico di quel gioiello. Con una mano si strinse il diamante al petto, con l’altra riuscì a malapena a girare la chiave, entrare in cabina e chiudere dietro a sé la porta.
Lasciò che il corpo, come esausto per una ricerca durata una vita, scivolasse contro la porta e fino al pavimento. Prese il foulard, lo adagiò con cura sul tappeto stendendolo per bene e vi appoggiò quell’incredibile meraviglia. «Ora che il Cuore dell’Oceano è tuo, il mio tornerà dove deve, per unirsi a chi l’ha fatto pulsare fino ad ora». Gli occhi furono catturati da questa frase, scritta direttamente in un angolo del foulard, con una scrittura d’altri tempi e da una mano tremolante, per l’emozione forse, o sicuramente… per l’età.
Il pensiero andò subito a Rose. Le gambe cominciarono a correre, percorrendo la strada appena fatta, ma in un decimo del tempo.
Arrivò sul ponte troppo tardi: il cuore di Rose era già tornato dove lei voleva, tra le acque di quell’oceano, accanto al suo Jack.
Lovett seguì con occhi increduli gli ultimi drappi dell’abito della donna, che l’oceano stava chiamando a sé, con flutti circolari che parevano danzarle attorno.
Fino all’ultimo, era riuscita a fare sempre quello che le aveva dettato il cuore.
Ma perché proprio ora?
«Il cuore di una donna è un profondo oceano di segreti» ricordò subito queste parole.
Quel cuore ora di segreti non ne aveva più e forse per questo, leggero, aveva deciso di abbandonarsi al suo ultimo sogno, quello di ricongiungersi con chi l’aveva salvata “in tutti i modi in cui una persona può essere salvata”.
Lovett si accorse solo allora di avere ancora il pugno stretto attorno al diamante.
Tese in avanti il braccio e aprì delicatamente la mano, come a voler salutare un’ultima volta Rose, lasciando andare la gemma. E insieme a lei, tanti altri pesi.
«Portala con te, Rose! A me ora non serve più. Da oggi torno a vivere».
Poi sorrise. Sereno.
Gli occhi fissi sull’oceano..
Finale a sorpresa di “Via col vento”, Margaret Mitchell (1936)
Nella Georgia del 1861, attraverso le peripezie e i matrimoni di un’egocentrica ragazza del Sud, Rossella O’Hara, viene dipinto un affresco melodrammatico ma spettacolare e coinvolgente della guerra di Secessione. La frase che la protagonista pronuncia alla fine del film: “Ci penserò domani. Dopotutto, domani è un altro giorno” è divenuta proverbiale…
di Laura De Biasi
Ora che Rossella aveva capito finalmente che in fondo quel gioco delle parti con Rhett non era altro che Amore vero e che Ashley era solo un amore adolescenziale, si diresse di corsa a casa per dichiarare finalmente a suo marito tutto il suo amore. Sapeva che non sarebbe stato facile, troppe cose, parole e gesti avevano minato un rapporto che lei stessa aveva sempre pensato fosse di comodo.
Ma lei lo amava davvero e mentre correva verso casa, le sue parole si diffondevavo sempre più nel suo cuore… “Amo Rhett, amo Rhett”.
Arrivata a casa lo chiamò ad alta voce ma non trovò risposta.
Salì di corsa le scale e aprì la porta della camera da letto,lui l’aspettava,con il suo sigaro tra le mani e la valigia pronta.
«Ora sarai libera e potrai finalmente coronare il tuo sogno. Io so che non sono stato che un ripiego, ma quanto è vero che mi chiamo Rhett io ti ho amato davvero e con tutto me stesso ho cercato di dimostrartelo. Ma tu sei solo una bambina capricciosa e hai buttato via tutto quello di che buono c’era in me».
Lo disse tutto d’un fiato, senza dare il tempo a lei di parlare.
Rossella lo guardò, con calma cercò le parole giuste, quelle parole che sapeva non sarebbero bastate a far tornare indietro Rhett, dalla sua decisione, ma doveva provarci perchè lui era tutto ciò che lei voleva veramente e avrebbe anche fatto patti con il diavolo pur di convincerlo ad ascoltarla.
Gli andò incontro e con dolcezza gli accarezzò il viso e lui ebbe un brivido a quel contatto.
«Demonio di una donna» pensò tra sé.
«Sai» disse lei, guardandolo diritto negli occhi «forse potremmo darci un’altra possibilità. Lo so che non sono stata una buona moglie, tu hai sempre avuto tanta pazienza,ma ora è diverso,ora che la nostra vita potrebbe cambiare, io ho capito che Tu sei l’uomo che ho sempre amato. Magari non mi crederai, perché troppe occasioni mi hai dato ed io ti ho deluso, ma se ora mi darai fiducia,io non ti deluderò!».
Anche Rossella parlò tutto d’un fiato, mentre le tremavano le gambe, perché sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima possibilità.
Rhett, aveva ascoltato con calma ma nel suo animo, aveva mille emozioni.
Sapeva che quelle parole erano dette con sincero amore, ma la rabbia per quello che era accaduto, erano ancora intrisa in lui.
Da una parte voleva allontanarla e allontanarsi dal dolore che comunque sia ancora aleggiava per la perdita di sua figlia, ma dall’altra voleva amare e perdonare quella donna. Lei lo fissava, quasi a voler leggere nella sua mente e non poteva perderlo proprio ora che finalmente aveva compreso cosa significava amare ed essere amati.
La vita li aveva messi a dura prova e questo doveva pur dir qualcosa, doveva per forza avere un motivo,se dopo tutto il dolore loro erano ancora insieme.
Rhett la guardava, era bella e fiera Rossella, come la prima volta che l’aveva vista. Come la prima volta che già aveva deciso che sarebbe stata sua e l’avrebbe domata e amata come nessuno mai.
Si fece sopraffare dal suo sguardo e con uno scatto l’avvinse a sé e guardandola negl’occhi gli disse: «Dovrei odiarti e prenderti a male parole per tutto il male che mi hai fatto, che ci siamo fatti,ma purtroppo non riesco e per quanto io cerchi, non riesco a staccarti da me. In fondo,”domani è un altro giorno” e…».
Non gli fece finire la frase e guardandolo gli sussurrò: «Francamente, me ne infischio» e lo baciò con tutta la passione possibile.
Ora erano solo loro e Tara… loro Casa!
Finale a sorpresa di “Profondo rosso”, film, Dario Argento (1975)
Il pianista inglese Marc Daly, dopo aver assistito all’omicidio di una medium, comincia ad indagare. Si susseguono altri omicidi, ma ad un certo punto, i sospetti si dirigono verso un suo amico, Carlo, il quale, dopo aver tentato di ucciderlo, viene arrestato…
di Gaia De Carlis
Marc era sconvolto,non riusciva a credere che il suo amico Carlo fosse un folle assassino.
Si torturava, dandosi del cretino per non averlo capito prima, almeno avrebbe evitato altre morti!
Ma, pensandoci bene, ricordò che l’amico era con lui, durante il primo omicidio, quello della medium.
Ne fu felice e corse in caserma per parlarne all’ispettore.
Dopo qualche giorno, grazie alle sue dichiarazioni, Carlo fu di nuovo libero, anche se con l’obbligo di non lasciare la città.
Ma Marc non si spiegava il comportamento precedente del suo amico, così lo chiamò per fissare un appuntamento e parlarne.
Erano le 19,00 circa, quando si incontrarono, e il buio cominciava a calare.
Prima bevvero una birra al centro, parlando del carcere e del grave errore commesso da lui e dagli inquirenti, nel credere che lui fosse l’assassino, poi Marc affrontò l’argomento che più gli stava a cuore, chiedendo a Carlo, perché avesse tentato di ucciderlo, il giorno del suo arresto, e chi stesse proteggendo…
Carlo, offeso, cambiò di umore.
«Chi potrei proteggere? Ho solo mia madre e lei non avrebbe neanche la forza di uccidere un moscerino!».
Marc si insospettì ulteriormente, e chiese a Carlo di andare, insieme a lui, a parlare con la madre.
Giunti sul posto, bussarono e l’anziana, ma arzilla madre, andò ad aprire.
Aveva uno sguardo strano, guardava rapidamente entrambi, e non parlava.
Poi fissò solo l’ospite, e fece un cenno col capo a suo figlio, che si avviò in cucina, lasciandoli soli.
Invitò Marc a sedersi e cominciò a parlare.
Era completamente fuori di testa, parlava del figlio come se fosse stato ancora un bambino.
Marc la ascoltò per un po’, poi chiamò Carlo, che subito li raggiunse.
«Carlo» gli disse a bassa voce «credo che sia inutile parlare con tua madre, lei ti considera ancora un bambi…»
non riuscì a finire la frase che, Carlo, afferrato un alare, lo colpì ripetutamente sulla testa.
La madre rideva forte, in un modo inquietante.
Marc, a terra, in un lago di sangue, li vedeva sfocati, ballargli intorno e ridere…
Finale a sorpresa di “Madame Bovary”, Gustave Flaubert (1856)
Emma Rouault, seconda moglie di Charles Bovary, è una donna desiderosa di lusso e romanticherie.
Nonostante abbia marito, accetta il corteggiamento del giovane Leòn.
Quando costui parte per Parigi, Emma intraprende una relazione con un altro uomo, ma non dimentica Leòn, che incontrerà di nuovo per iniziare una vera e propria storia con lui.
La donna spende cifre esorbitanti, indebitandosi sempre più; chiede così una somma di danaro ai due amanti, che gliela negano…
di Anna Fiore
La signora Emma finalmente aveva capito tutto, andò in chiesa e con fare deciso tirò dritto verso il prete, lo fissò un attimo, lo prese per il bavero e lo baciò; con voce sarcastica disse: «Bene! Questa è l’ultima volta che metto piede in una chiesa».
Il prete ed il sacrestano rimasero a bocca aperta.
Si diresse poi verso la farmacia, comprò del lassativo tanto quanto poteva bastare ad un cavallo.
Invitò i suoi due amanti per un caffè, i due si ritrovano faccia a faccia, mentre si chiedevano se quella donna stesse bene. .
«Sono contenta di avervi qui insieme; volte favorire? Quanto zucchero nel caffè?».
Le zollette, ben imbevute nel lassativo, sprofondarono nel caffè; i due invitati bevvero in silenzio quel caffè chiedendosi cosa avesse in mente quella pazza. Sapevano perfettamente tutti e due che ultimamente non era molto stabile con la testa.
Tempo di poggiare le tazzine, che i due si ritrovarono a correre per la casa in cerca di un bagno.
Troppo tardi ormai, si ritrovarono con i pantaloni pieni di cacca.
Emma osservò tutta la scena, mentre rideva come una pazza.
Uscì di casa sorridente e soddisfatta, andò a prendere sua figlia e la portò al parco giochi.
Trascorsero una bella giornata.
Mentre mangiavano zucchero filato, Emma rise ancora.
Finale a sorpresa di “Pinocchio”, Carlo Lorenzini detto Collodi (1881)
Pinocchio è un burattino che desidera diventare un bambino vero, ma per la sua ingenuità, passa molti guai…
di Valentina Marino
Io,non sono io.
Pinocchio è il mio nome, uno sciocco burattino.
Il mio Babbo mi ha costruito e
con amore mi ha cresciuto.
Nella disperazione è annegato, con lui sono stato un ingrato.
Povero, quanti sacrifici ha fatto per me!
Non è tutto, ascoltate a me!
Nel ventre del pescecane ha avuto la sua sventura, mentre io ho incontrato la fortuna!
Nel Paese dei Balocchi me ne stavo e…
Ahimè! Ho ragliato!
Oh Gesù e San Crispino,
son divenuto un ciuchino!
Aiuto Grillo!
La Fatina mi aveva avvertito che non sarei diventato un bambino!
Io, non sono io.
Sono un asino, che tutto ha perduto.
Che stolto sono stato!
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