Sintobiografia e sintoscritti di Vittoria Alices

Nata in un ridente paesello dell’Irpinia, nell’estate del 1963,
una vita molto colorata e turbolenta, fatta di colpi di testa e grossi rischi.
A tredici anni scrissi il mio primo racconto.
Odio i musoni e rifuggo i pantani.
Federica e Camilla, i miei gioielli.
Predico da sempre pace e amore.

 

 

 

Non sento le piante
estirpate dal terreno e
trapiantate nelle case,
né gli animali da cortile, che mangio volentieri,
se ben cotti,
né, tanto meno, i fiori in coma irreversibile,
tenuti in vita dall’acqua cambiata giornalmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Senza titolo

Non volo perché non ho le ali
Sogno.
L’inconscio
non si stanca mai.
Voglio essere dove mi trovo
i piedi incollati al suolo
E tutti i sensi
uno dopo l’altro
consapevoli
Materia, inconsistenza
male e bene.
Voglio
assaporare
il pianto
essenziale
alla
rinascita.
Così ci sono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un bacio sospeso
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Dal web

 

 

Punirò la tua bramosia
con un bacio, uno svelto.
Non te ne accorgerai nemmeno.
Sarà ricordo
senza essere vissuto.

 

 

 

 

 

 

Buonanotte

Mangio emozioni, le divoro.
Non basta.
Creo sensazioni, le invento.
Manco bastano.
Guardo una nuvola muoversi, cambiare colore… 
il cielo stasera è di un insolito blu, chiazzato di viola, o forse di rosa.
Vado a dormire, magari sogno a colori.

 

 

 

 

 

 

Rido

Rido di chi afferma di soffrire per amore.

Assaporo la mancanza.
Pianto: acqua di un fiume dorato,
sapore salato del mare che ho dentro, della nostra immensità.
Sento le tue radici che, con innaturale dolcezza,
si ramificano nel mio corpo,
accarezzando ogni parte di me.

Nessuna paura.
Tutta la luce del mondo nei nostri occhi.

Non ha forma il nostro amore, nessun limite a costringerlo.

E ridiamo delle distanze, io e te, come del tempo,
che nulla possono.

Tutto al posto giusto
è questa la perfezione dell´amore,
che rende bella ogni cosa.

E quando vorremo dare spazio al tempo,
un giorno, vicini o lontani,
l’uno nell’altro, continueremo,
abbandonando i nostri corpi,
inutili involucri del nostro essere.

 

 

 

 

 

 

Amore? Troppo poco

Brividi a parlare di noi

Siamo qui, uno a contenere l’altro
svuotarci di tutto per contenere noi

Leggerezza

Sensazioni oltrepassano la follia
rendendo limitato l’infinito

Il nero e il bianco, insieme
non formano il grigio

Nessuna paura
non esiste un domani da temere

Carezze solcano mari
respiri a fare vento
ad allontanare nuvole

I tuoi occhi del mio colore
i miei della tua gioia

Amore? Troppo poco.

 

 

 

 

 

 

Il silenzio del rumore

Quella porta
troppe volte
sbattuta con forza
Ora
accostata dolcemente
rivela la fine di Noi.

 

 

 

 

 

 

Sabatino Di Giuliano

Sabatino Di Giuliano

Ad un amico

Dietro l’angolo tu.
Davanti a me la tua inutile immagine,
spettro di un amico nascosto.
Nulla, nei tuoi occhi muti.
E le tue movenze ponderate,
imprigionano le mie emozioni.
Non mi addolorano le tue inquietudini fasulle,
che tu con noncuranza tiri fuori.
Non avrai l’attenzione che non chiedi.
Riderei forte di te,
non come tu lo fai degli altri,
di nascosto.
Svolta l’angolo, fai presto.
Sparami addosso le tue pene,
quelle vere…
io le raccoglierò.
Non spingerle più giù,
ti spaccheranno in due, in tre, in mille pezzi
ed io,
che ho la mia vita,
non li ricomporrò.

 

 

 

 

 

 

L’odore della morte

Un ticchettio costante, debole ma persistente, la snervava.
Non si chiedeva se fosse nel suo cervello o in quella lurida, umida stanza.
Sola, di un’inutile vecchia bellezza, troppo sfruttata, venduta e svenduta senza ritegno. Adoperata senza soste.
Pagava gli errori commessi. Senza lacrime, come sempre, senza trucco, come mai.
Ancora stranamente bello il suo corpo trascurato, trascinato dai bisogni anatomici.
Accendeva poche luci, con una pila illuminava bene i soldi da lasciare al suo fornitore ogni sera.
Era quel premuroso sconosciuto a decidere i suoi pasti. Gliene aveva data lei la responsabilità dal primo giorno.
Ogni mattina sentiva il furgoncino, spiava da un apposito buco, e appena egli andava via, con uno scatto ormai felino, tirava dentro quei suoi squallidi bisogni.
Sigarette e whisky, innanzitutto.
E fumava, fumava, senza mai cambiare aria. Viveva del suo respiro putrefatto; ragni e scarafaggi con lei.
Il suo gatto, stecchito da giorni, avvelenato da cibo avariato, si putrefaceva nel camino spento, sua sola pattumiera, unica sporca apertura verso il cielo.
L’odore di morte avrebbe, a breve, sopraffatto l’acre del fumo.
Viveva là da due mesi ma non sembrava così.
Quel giorno c’era il sole fuori, il buco spia lo lasciava entrare;  una piccola sfera di luce attraversava mezza stanza andando a morire sotto il tavolo.
Lei decisa, senza alcun preavviso, afferrò un coltellaccio e si accinse a liberarsi definitivamente del cadaverino puzzolente.
Lo fece a pezzi, era rigido, esangue, quasi si spezzava con le mani…
Si fece prendere e, divertita, assunse espressioni assassine, demoniache, malefiche: occhi infuocati, denti e gengive da fuori.
Fece presto, buttò i pezzetti nel water e tirò lo scarico, ma…
«Otturato, cazzo!».
Neanche il tempo di dirlo ché quello le vomitò in faccia tutta la sua perversione.
Rimase immobile, fredda, per tre o quattro secondi.
Poi si voltò e corse fuori. Come impazzita o, forse,  rinsavita.

Il sole le bruciava gli occhi, le pietre le tagliavano i piedi,
ma lei correva, correva ancora, ad occhi chiusi,
sicura che stavolta la morte non l’avrebbe ignorata.

 

 

 

 

 

 

 

Urla per sordi
Flikr

Flikr

 

 

Lui mi sedeva accanto, pranzava, cenava e dormiva con me.
Dal giorno della morte di mia madre, seguiva ogni mio passo.
Era forte, quasi quanto la mamma, ed io ne avevo lo stesso rispetto, anche se, il suo aspetto repellente e i modi di fare, mi provocavano disgusto.
Guardava le bambine, lo schifoso, risucchiandosi la lingua trasudante di saliva e blaterando incomprensibili parole impastate.
Io mi tappavo le orecchie, cantavo, urlavo o parlavo senza interruzioni, pur di non sentire quel viscido rumore.
Quante volte sono stato sul punto di spiattellarlo a tutti! Ma quello era furbo, lo faceva quando nessun adulto lo guardava.
Nessuno mi avrebbe creduto.
– Non avrà mai il coraggio di farlo –  mi dicevo.
In paese mi credevano matto a fare quei versacci, ma ero innocuo e fessacchiotto, dicevano loro.
Spesso i bambini mi prendevano in giro; io mi divertivo a giocare con loro, nonostante sentissi sempre sul collo i vomitevoli risucchi del verme.
Un giorno lo fece, il maledetto.
Portò Alessia, la bambina bionda che a me piaceva tanto, nella stradina in fondo al buio e lì  poi la lasciò.
Da allora tutto è cambiato, mi hanno messo in un posto chiuso, somiglia a una prigione.
Il porco assassino è sempre qui, accanto a me, non mi lascia ancora.
Ma io mi sento al sicuro.

 

 

 

 

 

 

 

Da che parte è la follia

Lula è felice, malgrado la morte del suo piccolo.
Matteo è tornato nel suo grembo, a godere del suo calore e
lei lo sente, senza nausee né timori.
Gli parla, gli mostra  violette, foglie autunnali, la neve.
Ascolta musica e balla.
La chiamano pazza,
perché il  dolore abbrutisce
ed essi cercano cure
non sorrisi.

I vicini si lamentano.
Lula gli sorride.
Lei vive così
Non li  piange i morti.
Ha ricordi vivi e sorriso.

Sa che vivendo d’amore,  non si muore mai.

Al mio amico Paschi