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“L´eterno cappotto” Gaetano Cubisino Di Geronimo

15/06/2014 da vittorialices


Da ragazzino ebbi lo stesso cappotto, dai sei ai tredici anni.
“Questo ragazzino ha bisogno di un cappotto” sentenziò zia Giovannina. “Domani andremo da Frette e gliene compreremo uno”.
L’indomani, dopo che la signorina Tina mi strigliò nella vasca da bagno e pettinò con succo di limone, vecchio e infallibile fissatore per capelli, che al seccare li rende tesi come i chiodi (ma faceva ardere gli occhi) messe le scarpe buone e ricevuto il monìto : “Ora seduto, si ti movi ti capuliu” (se ti muovi ti trito come la carne), tutti pronti e si partì, con la nuova Aprilia.
Zio al volante, zia a lato, dietro la nonna, un cugino, che doveva andare a Catania, la cognata, la signorina Tina ed io.
Il viaggio a Catania era sempre un’avventura per me.
Caldo tremendo, la nonna gridava sempre “Chiudete i finestrini ,
c’è corrente!” mio zio mugugnava a bassa voce, credo che bestemmiasse, anche se lo avevo udito farlo solo una volta, durante un discorso di Fanfani alla radio.
Arrivammo: grande negozio con alte scaffalature in legno lucido, piene di panni e stoffe.
“Un cappotto per il bambino” disse la zia, alla bella e giovane commessa, “Che sia buono , deve durare”. Mi fecero salire su un banchetto di fronte a degli specchi; l’immancabile scappellotto “Tu non fare smorfie” e arrivò la commessa, portava tre cappotti.
Il primo mi giungeva alle ginocchia “Troppo piccolo, i ragazzini crescono e deve durare”, Il secondo, “Troppo chiaro, questo lo sporcherà a treza nisciuta” (alla terza volta).
Arrivò quello che a loro sembrò giusto, me lo indossarono, largo di spalle, ero magrolino, largo di maniche “si possono accorciare, si mettono dentro e poi a poco a poco si allungano”.
Mi arrivava alle caviglie. Due strattoni alla cintura e “visto, ora gli sta meglio” .
Con un cappotto in Agosto, in Sicilia? Sudavo come un rubinetto “spanatu”.
Mi guardai allo specchio, sembravo una tartaruga, il collo magro e la piccola testa che fuoriusciva dal grande colletto.
Allo specchio vidi mio zio che con sorriso ebete, carezzandosi i baffetti, guardava le generose forme della commessa, quando questa si chinava per tentare di aggiustare il cappotto; zia Giovannina se ne accorse e gli disse: “Tu esci, poi ne parliamo a casa”.
Così senza nessun aiuto rimasi solo con le donne.
“Sta bene , prendiamo questo, tanto poi crescerà”.
Non crebbi con la velocità desiderata, forse fu il peso del cappotto a frenare la mia crescita.
I primi tre anni crebbi poco, poi al quarto e quinto anno la lunghezza del cappotto fu quella giusta. Il dramma accadde al settimo anno, crebbi tanto che il cappotto era divenuto una giacca, le maniche mi arrivavano quasi ai gomiti e abbottonarlo era un’impresa.
Mi vergognavo a metterlo e un giorno al ritorno dalla scuola lo gettai dal ponte della ferrovia, cadde su di un vagone e partì per un viaggio senza ritorno.
“E u cappotto unn’è?” l’urlo della zia fu assordante, “U persi” (l’ho perduto) e sotto una serie di scapaccioni le domande: “Dove? Come? Come si può perdere un cappotto, era quasi nuovo”.
Fui castigato per giorni, non potei uscire a giocare, ma ero felice, mi ero liberato dell´eterno cappotto.
La nonna disse: “Ora bisogna comprarne un altro” e la zia di rimando, “Per quest’anno niente , ora viene la primavera”. Era in Gennaio. “Poi a Settembre andremo da Frette e ne compreremo un altro”, aggiunse.
Quello fu il mio secondo cappotto, ma è un’altra storia.

Mai ho odiato tanto una cosa, come quel primo cappotto.

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