“La lampada ad olio” Lorenzo Verduci
L’odore della lampada ad olio si diffondeva per il soggiorno del cascinale, i passi del fattore facevano scricchiolare le assi di legno sul pavimento nel corridoio d’ingresso; indossava stivaloni polverosi e sporchi di sterco, nella mano sinistra il secchio con il latte appena munto; la sua signora, con un figlio in arrivo, era raggiante, i lunghi capelli neri gli si posavano sui seni gonfi e pronti, preparava lo spuntino di metà mattina per il suo uomo che si prestava ad iniziar la giornata.
Era la primavera del 1920 in un piccolo paese delle Murge, in provincia di Bari e il sole non era ancora sorto.
Su per lo scollinamento che portava alle campagne un gruppo di mezzadri andava incontro ai colori dell’alba, sulla sinistra un campo di girasoli vangogghiano incantava i passanti che canticchiavano vecchie storie di briganti nel dialetto locale, sulla destra i vigneti violacei e gli ulivi secolari emanavano un profumo che si spargeva fino alle case del piccolo borgo.
Francesco lavorava per un ricco possidente della vicina Canosa, potava l’uva, raccoglieva le olive, usufruiva del podere, coltivava il grano che la moglie, Marianna, come per magia trasformava in pane; intorno all’ora della semina Marianna stava per raggiungere il suo sposo, un raggio di sole asciugava il sudore sulla sua fronte, un lieve vento faceva danzar la sua chioma come una danzatrice giapponese, quando il suo viso strinse le guance in una smorfia di dolore.
L’inquieto frutto dell’amore iniziava a farsi largo e, nell’arco di un paio d’ore, emise le sue prime parole: due striduli gemiti che non potevano che essere un incantevole pronostico