Sintobiografia e sintoscritti di Luca Oggero

 

 

Scrittore di racconti, romanzi, poesie e monologhi, cantautore, anarchico e dissacrante, lucido e folle, Luca “El Lucho Balboa” Oggero è stato cantante della rock band Uovatomiche. Piemontese, classe 1975, ha pubblicato il romanzo autobiografico “Morte e resurrezione di un povero cristo” con allegato il disco solista “Porci senz’ali ed altri animali”, (Araba Fenice Edizioni, 2013), e la raccolta di racconti “Le tragiComiche porNovelle” (Matisklo Editore, 2016), dalla quale la regista Elena Serra ha tratto uno spettacolo teatrale che sta riscuotendo molto successo. Suoi racconti e poesie sono inoltre stati pubblicati sui book-magazine “Antisociale” vol. 2, 3, 4 e 5, (Amande Edizioni), nel libro “Criceti – come correre una vita senza andare da nessuna parte”, (Gli Elefanti Edizioni), sulla rivista “Pastiche” e nella raccolta di poesie “Rose & proiettili”,  (Matisklo Editore). Attualmente si occupa del progetto di info-prevenzione “Superciuk ex-perience project”, portando nelle scuole superiori la propria esperienza di ex alcolista attraverso letture di propri scritti in prosa e in poesia, lavora come educatore in una comunità per minori e collabora come giornalista per il magazine “Cinque colonne”.

 

 

 

 

 

 

 

Questo è il massimo della mia sintesi letteraria espresso finora:

Superbia

(D)io sono

 

 

 

 

 

 

 

Ottimismo utopico

Soffro di un certo “pessimismo storico”:
la circolarità delle tragedie,
rivolte che poi sfocian nel dispotico
già lo sapevo dalle scuole medie.
Soffro anche un po’ di “pessimismo cosmico”
ché l’uomo è brutta bestia quando vuole
s’ingegna a far del male a sé e al suo prossimo
pensa sia attorno a lui che gira il sole.
Però domina in me e non sono l’unico
l’idea che il mondo possa un dì cambiare
l’irrazionale mio “ottimismo utopico”
è ciò che mi dà forza per lottare
unendomi a persone che non guardano
cultura, razza, lingua e religione
in ampi cerchi che ogni dì si allargano
gettando semi di rivoluzione.

 

 

 

 

 

 

 

Occhi bambini

Tutto ha il colore della meraviglia
visto da occhi bambini e innocenti
quando volano in cielo gli elefanti
e non esistono confini
tra la realtà e la fantasia:
possibile e impossibile
un unico groviglio indissolubile
e questa è l’unica credibile poesia.
Il resto sono vani tentativi
di ritornare a ciò che più non è
fatti da noi adulti adulterati
dagli anni che donandoci coscienza
ci tolgono pian piano l’allegria
dell’età fresca e lieve dell’infanzia
dove sovrana regna la magia.
 

 

 

 

 

 

 

La buona follia

Girare su se stessi
in rotazione perenne senza meta
giova soltanto alla vertigine
a tutti i fiori
che non ti ho mai regalato
e a tutte le volte
che non me l’hai data
né in prestito d’uso
né per amore
né per qualunque altra forma contrattuale.
Da quando non mi do più fuoco
e non mi faccio più la barba con la motosega
il mio umore è decisamente migliorato,
da quando ho imparato
a spezzare le montagne coi sorrisi
la gente ha smesso di farsi il segno della croce quando passo
e di disinfettare i muri di casa con l’acquasanta.
Non che la cosa mi turbi, anzi.
Mi sento così leggero
da un po’ di tempo in qua
che le farfalle mi guardano invidiose.
Mi sento così profondo
che se provo a calarmi giù in apnea dentro di me
sicuro che muoio
prima di riuscire a toccare il fondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Rendez-vous

Là dove il giorno incontra il latrato dei cani
che si spartiscono un osso,
là dove il mare più grosso diventa bonaccia
dove ogni traccia di superbia scompare
e si apre la noce del cuore
a lasciarsi mangiare
da passeri e passanti.

Laggiù dove cantanti e calciatori non sono importanti
più degli idraulici o dei muratori:
ci incontreremo là.

Mi riconoscerai tra la folla:
sarò l’unico a indossare
una poesia tra i denti
e acqua corrente a tracolla.

 

 

 

 

 

 

 

Chi ci crediamo di essere?

Mi resta un senso vago e indefinito
– botto in potenza
di bomba interna-
quando penso tra me e quell’altro me
che siamo noi a spezzare
le fragili ali della palla volante nel vuoto
che volenti o nolenti ci ha caricati su tutti.
Penso all’avidità con cui ne distruggiamo i frutti
nel nostro esistere nel suo perpetuo lento moto:
vorrei alzarmi e urlare
l’assurdità di ritenerci re
mentre lei eterna
con noi o senza
continuerà a girare all’infinito.

 

 

 

 

 

 

 

Che ne sai?

Perché cosa ne sai tu
di decisioni tanto difficili da prendere
che comunque scegli
sei scisso in due.
Cosa ne sai
di notti vegliate al lume
del nuovo giorno che arriva coi rumori
e la luce dell’alba
che ti riporta tra i vivi
con l’aiuto di un bicchiere di veleno.
Di quando ero una tanica in fiamme
con occhi di luce nera,
fanali del demonio
tu, che ne sai.
Raccogliere i mozziconi da per terra
per fumare miseria
come un vero signore.
Curarsi ogni male col vino
per ammalarsi meglio
come un vero dottore.
Gli amori spezzati
dal vizio di vivere
quelli distrutti
dal vizio di morirsi addosso.
Ma tu, sì, tu, cosa ne sai?
Nulla ne sai.
O forse ne sai quanto o più di me
sei solo più discreto
e te lo tieni per te
 

 

 

 

 

 

 

Quant’era bello e orribile

Te lo ricordi fratello?
Te lo ricordi
Quant’era bello e orribile?

Accendevamo a Dioniso e a Bakunin
candele e molotov
ci facevamo
con i gas di scarico
con tutte due le scarpe nel futuro
i sogni sulle palpebre
follia ordinaria
quotidiana rivolta
vite virate
in seppia e fluorescenza
in liquido speziato divenire.

Senza orologio né navigatore
senza mete precise
si bruciava di vita
sodomizzando l’universo.

Poi ti hanno preso
o ti sei fatto prendere
chiuso in un matrimonio e in un ufficio
dentro l’odore standard
delle poltrone nuove
niente più sbando
né chitarre elettriche
non più notti impazzite
psichedelia low coast
l’arguzia dissacrante di Biafra
o l’urlo disperato di Cobain
ma il triste valzer
del condizionatore
comprato a rate
così come la gioia
giù dalle barricate
fuori dalla miseria
dentro i sistemi di allarme
delle villette a schiera.

Io sono ancora un povero fesso
sempre più o meno simile a me stesso
un po’ più vecchio
forse un po’ meno autentico
di certo meno sbronzo
non bevo più petrolio
non coltivo il suicidio
ma allevo ancora il grido
lo nutro coi miei giorni
giorni lucidi e folli
di fantasie inesplose
di sudicia poesia
e di ricordi.

 

 

 

 

 

 

 

L’incompetente

Dal web

Con le donne ero un vero disastro, un incompetente, una frana. Non sapevo davvero da che parte iniziare.
Quando finalmente riuscii a portarne una in camera da letto non avevo idea di cosa si dovesse fare, quindi andai per tentativi. Glielo infilai in un orecchio.
Lei disse: «Acqua, acqua…».
Io pensai che il sesso le avesse messo sete, quindi andai in cucina a prenderle da bere. Quando tornai in camera lei non c’era più. Ma sul letto c’era un biglietto: «Me ne vado. Sei troppo uno sfigato. Volevo andarmene col primo che passava ma qui in casa c’eravamo solo noi due e quindi il primo che passava saresti stato tu. Così ho deciso di andarmene da sola. Non cercarmi mai più, tu e il tuo cotton fioc di merda».
Ero molto triste. Pensai che a quel punto avrei dovuto ubriacarmi, quando si viene mollati di solito si fa così.
Soltanto che io ero astemio.
Scesi al bar di sotto e provai ad ubriacarmi col chinotto. Ne bevvi sette uno dietro l’altro ma non mi facevano nulla. Dopo il decimo qualcosa si smosse. Ma non nella testa, come avrei voluto, bensì nella vescica.
Pagai i miei dieci chinotti e uscii di corsa per tornare a casa e andare in bagno. Non riuscii che a fare pochi metri fuori dal bar e poi dovetti farla lì, contro il muro, perché non ce la facevo veramente più…
Saranno stati circa venti minuti che pisciavo contro il muro quando mi si fece vicino Ulioiglesias, il cane parlante che abitava nel mio quartiere: «Ehi bello» mi apostrofò «se vuoi marcare il territorio guarda che ne basta uno spruzzetto. Che vuoi fare, battere in lunghezza il Po? Guarda che fra un po’ arrivi al mare».
Mi voltai di lato e vidi che Ulioiglesias aveva ragione. Il mio bisogno impellente aveva generato un lungo fiume giallo che oramai scorreva ben oltre l’orizzonte. Sulle rive di quel fiume si erano già appostati un paio di pescatori con le loro canne. Ma non essendoci nell’orina alcun pesce, anziché usarle per pescare, le canne se le fumavano.
Beati loro, almeno si sballavano! Io invece mi ero bevuto dieci chinotti da trentatré cl e non ero nemmeno un po’ allegro. Anzi, ero piuttosto triste. La ragazza mi aveva lasciato.
Ma me l’ero legata al dito: non avrei più commesso lo stesso errore in futuro.
Salendo le scale mi ripromisi che mai e poi mai sarei più andato a prendere dell’acqua in cucina quando ero in camera con una donna. E io sono uno che le promesse a se stesso le mantiene.
Infatti anni dopo, quando ero al capezzale di mia nonna moribonda e lei con un filo di voce mi domandò:
«Per piacere… vammi a prendere un po’ d’acqua…» le risposi: «Fossi scemo, nonna! Mica voglio farmi le pippe per tutta la vita!». Lei mi guardò in modo strano, poi girò gli occhi all’indietro e morì. Io invece non morii, ma continuai a farmi pippe e continuo ancora oggi. Sempre meglio che pisciare contro i muri: almeno quando mi tocco nessun cane parlante viene a farmi la predica.

 

 

 

 

 

 

 

 

O mangi la finestra o salti la minestra!

Avevano ben cercato di spiegarglielo che era il contrario, ma quella zuccona di mia nonna proprio non voleva cacciarselo nella testa. Quindi per tutta la mia infanzia continuò a ripetermelo ogni qualvolta a cena ci fosse la minestra, che è sempre stato il mio piatto preferito.
A lei ovviamente da piccola l’avevano insegnato giusto, cioè: “O mangi la minestra o salti la finestra”. Su di lei aveva sempre fatto effetto: terrorizzata dal doversi buttare giù dal terzo piano aveva sempre divorato la minestra fino all’ultimo cucchiaio e infatti era cresciuta bene. Era una donna forte ed energica anche se con l’età aveva iniziato ad avere qualche rotella fuori posto. E ogni volta che cucinava una delle sue ottime minestre, pur di averne un piatto anch’io ero costretto a mangiarmi l’anta di una finestra. Per fortuna che a quei tempi gli infissi delle case erano di legno e non di metallo quindi, con un po’ di impegno e di buona volontà, in un’oretta circa mi mangiavo la finestra. Lei, mia nonna, stava lì a guardarmi col suo grembiule e il mestolo in mano sorridendo e facendo cenno di assenso col capo, e quando avevo ingoiato gli ultimi trucioli mi ripeteva:
«Visto che non è poi così difficile? Adesso aspetta che ti ho messo la minestra a scaldare: appena sarà pronta ne avrai un bel piattone!».
Io ero tutto contento: un po’ perché avrei avuto un buon piatto di deliziosa minestra della nonna, ma soprattutto perché anche ‘stavolta ero riuscito a fregarla. Avevo sì masticato anche i vetri ma poi li avevo sputati imboscandoli nel tovagliolo.
A questo punto sorgeva il secondo problema causato dalla mala interpretazione di quel detto popolare da parte di mia nonna: il freddo. Anche se la stufa era sempre accesa il fatto che io mi mangiassi le finestre portava all’interno della casa il gelo dell’inverno e io e i miei fratelli ogni notte in cui si era mangiata minestra rischiavamo di morire assiderati. Allora ci avvoltolavamo ben bene nelle coperte e andavamo ad accucciarci vicino alla stufa mentre mia nonna, lei, se ne andava beata e tranquilla a dormire nella sua stanza, dove le finestre c’erano sempre tutte.
Il problema durava soltanto quella notte stessa perché il mattino dopo mia nonna chiamava Ugolino, il falegname del villaggio, che costruiva una finestra nuova e così la casa era di nuovo al caldo. Non so di preciso quanto potesse costare ricostruire ogni volta la finestra ma immagino non poco. Anche su quella questione chi conosceva mia nonna cercava di farle cambiare idea: «Guarda, Adalgisa, che non ti conviene… Buttate via tutti i soldi in finestre! Non gliela puoi dare lo stesso la minestra al povero Lucianino anche se non si mangia prima la finestra?» «No! Cascasse il mondo si fa così: o mangi la finestra o salti la minestra!».
Insomma, io volevo molto bene a mia nonna e per certi aspetti era una donna molto buona ma il giorno in cui la ricoverarono in ospizio una parte di me fu molto sollevata: quella parte di me che non si adattava al regime alimentare dei castori.

 

 

 

 

 

 

 

 

Primo appuntamento

«… e poi non ci credo che fossero vere… Nooo, per me quella è tutta rifatta. Sì, che poi va a mettere tutti sti post su Facebook dove inneggia alla natura e all’ambientalismo. Ma quando mai, dico io, che a smaltire il silicone che hai nelle labbra e nelle tette ci vorrà un millennio! E non parliamo poi di sua sorella! Ma l’hai vista? Sì, certo che l’hai vista, che scema, è lei che ci ha presentati. Non dirmi per piacere che è amica tua… Cioè AMICA vera, intendo, non un contatto sul social, perché io la conosco sul serio e vade retro! Pensa che una volta…».
Armeggiavo distrattamente con la forchetta passando le punte lungo il bordo del piatto vuoto e sperando disperatamente che al più presto il cameriere arrivasse con le nostre ordinazioni e lei smettesse finalmente di parlare e si tappasse la bocca coi ravioli burro e salvia che aveva ordinato.
C’erano due tipi di donne che non sopportavo: le logorroiche e le pettegole e lei incarnava alla perfezione tutti e due i modelli. Quel primo appuntamento si stava dimostrando una delle peggiori scelte fatte in vita mia, quasi peggio di quella volta che avevo provato a infilare il pisello nell’aspirapolvere…
«…per non parlare poi di Stefania! Sai Stefania, quella tutta sorrisini e complimenti… Quella è una iena! Davanti mille moine e poi appena ti giri: zac! Ti infila un bel coltello nella schiena! Pensa che…».
«No, scusa un attimo. Stefania, quella coi capelli rossi, quella che abbiamo incrociato prima mentre stavamo entrando al ristorante?» «Sìììì, lei… Non sai quanto è falsa!» «Ma ti rendi conto che stai facendo esattamente le cose di cui accusi lei?».
Mi guardò e sembrava non capire. Beh, se non altro ero riuscito a farle chiudere quella bocca del cazzo per un istante.
Cercai di spiegarmi meglio: «Quando prima abbiamo incrociato Stefania tu l’hai salutata come fosse la tua più grande amica, le hai fatto i complimenti per come era vestita e per il taglio di capelli e ti sei sperticata in mille sorrisi e salamelecchi e ora sei qui che la sputtani alla grande dandole della falsa. Non ti pare un po’ ipocrita tutto questo?».
Le andò via un po’ di colore dal viso e mi guardò con uno sguardo laser-trapano-ringrazia-che-son-occhi-e-non-proiettili. Bevve un sorso di vino, posò il bicchiere sul tavolo e mi apostrofò con voce sdegnosa:
«Guarda che non è questo il modo per cominciare bene una serata»
«Sì, lo penso anch’io…».
Mi alzai da tavola facendo per andarmene.
«Cosa fai? Dov’è che stai andando?»
«Torno a casa. Ho un conto in sospeso con l’aspirapolvere».

 

 

 

 

 

 

 

 

Come mi è venuto il mal di schiena

Forse non vi avevo ancora spiegato come ho fatto a farmi male alla schiena.
Io in questo periodo lavoro in campagna, forse qualcuno di voi lo sa.
Quel giorno ero sul semovente che raccoglievo mele trullallero trullallà quando sento una vocina: «Aiutho! Aiutho!». Mi guardo attorno e capisco immediatamente dalla “h” in “aiutho” che il mio collega rumeno Gabriel è in pericolo.
Dovete sapere infatti che il rumeno è uguale all’italiano ma con le “h” dopo le “t”.
Il poveraccio era rimasto schiacciato da un cassone pieno di mele (400 chili più o meno).
Non so se avete mai sentito parlare di gente che in casi di estrema necessità tira fuori una forza sovrumana… Beh, per Dio, è tutto vero! Ho tirato su il cassone con tutte le mie forze e quello è saltato su per aria come un tappo di spumante.
Il mio collega non la smetteva più di ringraziarmi: «Grazie Luca, grazie! Se non ci fossi sthatho thu non so come avrei fattho!».
Io il rumeno non lo capisco molto ma intuivo dalla sua espressione e dal fatto che tentasse di limonarmi che mi era grato. Comunque deve essere stato quello sforzo che ho fatto a farmi venire mal di schiena, o forse lo shock per il fatto che il mio amico, notoriamente eterosessuale e sciupafemmine, volesse limonarmi.
Intanto il cassone, che era volato per aria, è finito dritto dritto in testa al mio datore di lavoro, che stava passando col trattore due file di alberi più in là.
Ora si dà il caso che il mio datore abbia smesso di fumare dieci anni fa ma che proprio in quel momento abbia deciso di ricominciare, affascinato dalle seducenti fotografie che mettono da un po’ sui pacchetti di sigarette.
Il trattore è finito contro un albero e si è ribaltato, il gasolio è fuoriuscito dal serbatoio e la sigaretta del mio capo l’ha incendiato.
Il mio datore di lavoro è diventato una torcia umana e ha iniziato a correre per il frutteto dando fuoco a tutti gli alberi.
I fotografi dei pacchetti di sigarette ne hanno subito approfittato per fargli una foto accompagnata dalla scritta “Il fumo incendia i frutteti: smetti subito”.
Quelli che raccoglievano mele in quella fila hanno preso fuoco anche loro e anche loro hanno iniziato a correre, propagando l’incendio ovunque.
Un paio di loro, quelli che non sono morti carbonizzati, si sono buttati nel torrente che scorre al fondo del frutteto e sono stati divorati dalle sanguisughe e dai coccodrilli che notoriamente infestano le acque di quel torrente.
Poi non so cos’altro è successo, perchè ho guardato l’ora e il mio orario di lavoro era finito, così sono andato a casa.
E da quella sera ho iniziato ad avere mal di schiena.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dal web

 

 

Sonia e Luigi

Sonia aveva le chiavi dell’appartamento di Luigi e gli entrò in casa dopo due settimane d’assenza. Nel corridoio semibuio il pavimento era interamente costellato da una miriade di bottiglie vuote, cartacce di cioccolatini e pacchetti di sigarette appallottolati. Entrò nel salotto, dalla cui porta filtrava la luce azzurra dello schermo televisivo. Buttò un’occhiata a terra: anche lì stesso macello. Il pavimento sembrava una discarica. Sdraiato, quasi sciolto sulla poltrona in similpelle, Luigi russava sonoramente. Sulla barba ispida del suo volto addormentato il colore mutava allo scorrere delle immagini in tv.
«Svegliati, amore!».
Gli scosse dolcemente un braccio. Lui bofonchiò qualcosa e voltando la testa dall’altra parte riprese a russare.
«Ehi, sveglia!» E lo scosse più forte.
Questa volta lui aprì gli occhi e nel vederla le sorrise.
«Mmmciao…» le disse stiracchiandosi come un grosso gatto «com’è andata in Francia?»
«Eh, è stato un po’ un tour de force ma alla fine partecipare a quella fiera è stata una buona idea. Abbiamo trovato un sacco di nuovi clienti… E tu? Dio mio, hai ridotto questa casa veramente male…»
«Sai che non mi piace tanto fare le pulizie… Ma che ore sono?»
«Sono le undici e mezza passate. Che dici, lo prendiamo un tè prima di andare a nanna?».
«Se hai voglia di farlo sì».
Sonia andò in cucina. Nel lavello era ammucchiato un ammasso di piatti e stoviglie sporche. Un vasetto di yogurt vuoto con accanto un cucchiaino macchiato assisteva immobile al soprastante volo schizofrenico e circolare di un paio di mosche impazzite.
Prese un pentolino dal lavello, gli diede una bella sciacquata e mise su l’acqua per il tè.
Preparatolo, lavò due tazze, ve lo versò e lo portò nel salotto.
«Allora, sei andato a votare?»
«Sì, alla fine ho votato Salvini…»
«Cazzo, Luigi! Ma ti avevo pregato di non farlo! Ti avevo portato tutti i programmi elettorali degli altri purché non votassi quello stronzo di Salvini!»
«E non incazzarti, dai… E’ che ho provato a mettermi lì a leggere ma mi stancava troppo, tutti quei concetti complicati di economia e politica… Salvini è semplice e diretto. Quel che dice in tv è chiaro: stop agli immigrati, l’Italia agli italiani… Del resto anch’io voglio un Paese più pulito…»
«Imparassi a tenere pulita casa tua! Guarda che schifezza! E scommetto che domani dovrò pulire io se no tu resteresti a vivere in questa porcheria per un mese!».
Luigi posò la tazza vuota sul tavolino.
«Non arrabbiarti, lo sai che son fatto così. Andiamo a letto?»
«Eh, sì, andiamo a letto che tanto con te è inutile discutere…».
Nel letto Luigi si voltò immediatamente verso il muro: «Buonanotte»
«Come buonanotte, dai… Sono due settimane che non ci vediamo. Non ti sono mancata un po’?» Gli si avvicinò carezzandogli una spalla.
«Sì che mi sei mancata, mi sei mancata tanto…».
Con uno sforzo Luigi si alzò dalla propria posizione per sdraiarsi su di lei. Si baciarono per alcuni minuti, poi lui le si infilò dentro.
«Ecco, adesso muoviti!»
«Macheccazzo muoviti, Luigi! Sei tu di sopra, muoviti tu!»
«Ma io mi sono appena svegliato, non ho voglia di agitarmi…»
«Senti, al limite girati e mi metto sopra io!»
«Ok».
Con un altro sforzo sovrumano ritornò a sdraiarsi supino.
Dopo l’amore lui si addormentò. Lei pensierosa rimase ancora almeno un’ora a guardare il soffitto.
Al risveglio di Luigi, Sonia era già in piedi, e vestita come per uscire.
«Senti, ti devo parlare…» disse sedendosi sul bordo del letto.
«Va bene, ma prima potresti preparare il caffè?»
«Il caffè l’ho già preso e te ne ho avanzato un po’ nella caffettiera. Quando ti deciderai a scendere dal letto potrai berlo…»
«Ma cos’hai, sei incazzata? E’ ancora per la storia di Salvini?»
«Non è solo quello, Luigi. E’ tutto l’insieme. Tu non mi ami veramente, non fai il minimo sforzo per cercare di ascoltare quello che ti dico. Ad esempio, sei andato a cercare lavoro?».
«Beh, no, ma avevo da fare… dovevo decidere per chi votare…»
«Lo vedi, Luigi? Così non si va da nessuna parte. Ormai ho deciso, io me ne vado e non voglio vederti più…»
«Beh, se la metti così… ma almeno prima di andare via me lo porteresti il caffè?»
«Vaffanculo, Luigi!».
Se ne andò via sbattendo la porta.
Lui si girò dall’altra parte e si riaddormentò.
Per molto tempo nessuno vide più Luigi. Dopo una settimana che non rispondeva più nemmeno al telefono alcuni parenti si allarmarono e fecero forzare la porta di casa sua. Lo trovarono morto sulla poltrona, con la tv accesa, in evidente stato di denutrizione. C’era chi diceva che si fosse lasciato morire per amore. In realtà il frigo era vuoto e lui non aveva voglia di andare a fare la spesa.

 

 

 

 

 

 

 

Sii tu

Chi arriverà
a spremere via il marcio
della purulenza infetta
da questa società giocattolo
di squali dal cervello di scoiattolo
che come camicia di forza mi sta stretta?
Chi mai verrà
a sprimacciare il cuscino al mio fardello
a caricarmi a “Salve, come sta?” il fucile
quando mi grido dentro
quando la testa mi esce fuori dal cappello
e lacrime di granito
si incastrano nei miei dotti lacrimali
non trovano strada per uscire
e dalla bocca senza più labbra né ali
non esce spasmo, rantolo o vagito?
Non ti aspettare salvezza
che giunga dal cielo o dal mare:
fai tu la prima mossa
sulla scacchiera della vita.
Nella savana cementificata
nella città incarnita e incarognita
sii tu colui che parte alla riscossa
per restituirti consapevolezza
che ti permetta di poterti salvare.