Sintobiografia e sintoscritti di Lorenzo Verduci

verduci25/9/1972 a Torino, sono uno scrittore che nel tempo libero lavora in una piccola scatola cinese della grossa azienda nazionale privatizzata che costruisce aerei che, si spera, non debba pigliare mai.Il mio obiettivo a breve termine è il licenziamento in modo da attingere agli 8 mesi di sussidio di disoccupazione, per i 50 anni spero di riusicre a svegliarmi a fianco alla donna o alle donne che amo, magari in riva al mare. Sogno colorato, quasi mai in bianco e nero, mi piace suonare e cantare ma sono scarso in entrambi i campi.

 

 

 

 

 

La lampada ad olio

L’odore della lampada ad olio si diffondeva per il soggiorno del cascinale, i passi del fattore facevano scricchiolare le assi di legno sul pavimento nel corridoio d’ingresso; indossava stivaloni polverosi e sporchi di sterco, nella mano sinistra il secchio con il latte appena munto; la sua signora, con un figlio in arrivo, era raggiante, i lunghi capelli neri gli si posavano sui seni gonfi e pronti, preparava lo spuntino di metà mattina per il suo uomo che si prestava ad iniziar la giornata.
Era la primavera del 1920 in un piccolo paese delle Murge, in provincia di Bari e il sole non era ancora sorto.
Su per lo scollinamento che portava alle campagne un gruppo di mezzadri andava incontro ai colori dell’alba, sulla sinistra un campo di girasoli vangogghiano incantava i passanti che canticchiavano vecchie storie di briganti nel dialetto locale, sulla destra i vigneti violacei e gli ulivi secolari emanavano un profumo che si spargeva fino alle case del piccolo borgo.
Francesco lavorava per un ricco possidente della vicina Canosa, potava l’uva, raccoglieva le olive, usufruiva del podere, coltivava il grano che la moglie, Marianna, come per magia trasformava in pane; intorno all’ora della semina Marianna stava per raggiungere il suo sposo, un raggio di sole asciugava il sudore sulla sua fronte, un lieve vento faceva danzar la sua chioma come una danzatrice giapponese,  quando il suo viso strinse le guance in una smorfia di dolore.
L’inquieto frutto dell’amore iniziava a farsi largo e, nell’arco di un paio d’ore, emise le sue prime parole: due striduli gemiti che non potevano che essere un incantevole pronostico.

 

 

 

 

 

Il martedì è un buon giorno per rimanere a casa

Ci vuole del tempo per rielaborare e assimilare gli stimoli, per non confondere i sapori e apprezzarli nei particolari.
Leggere e rileggere una pagina, un libro. Ascoltare senza fretta un cd, senza incastrarlo durante una telefonata o fra due impegni. Osservare delle foto, passare del tempo a cercare il giusto ritocco per poi preferire l’originale e mollare tutto così.
C’è un silenzio quasi assordante ma se chiudo gli occhi sento ancora le voci di quei giorni. Le chiacchiere inutili e quelle fondamentali, le frasi interrotte, le battute e le confessioni lasciate a metà.

Una corsa, una sigaretta, un appuntamento, una cena, un maglione, una colazione al bar, musica in macchina prima cantata poi ascoltata poi spenta, una passeggiata, sabbia, tramonto, il riposo, ancora un risveglio, mangiare, bere, chiacchierare, salutare, interrogarsi, tacere.
Lavoro, fretta, incontri sbagliati, parole negate, incontri giusti, parole regalate, uno sguardo intercettato, una cena, pesce crudo, un saluto, una promessa, sonno.
Una domanda, una risposta.
Queste cose da qualche parte esistono ancora, credo, nel mio bosco incantato. Vorrei essere in grado di conservare e apprezzare tutto, avere la capacità di stimare con competenza il vero dal falso, il valore dal disvalore.
Per non dimenticare mai nulla, in tutta la mia vita.
Il primo respiro, la prima volta che ho capito di essere io e non gli altri, il secondo bacio, l’ultima volta che mi sono innamorato per l’ultima volta.

 

 

 

 

MegaHd

MegaHd

Il potere della musica

Stamattina mentre andavo al lavoro a piedi, una donna dietro di me arrancava, ticchettando coi tacchi sull’asfalto.
Mi dava fastidio, quando mi son girato per vedere la fonte del suono, ho scoperto che, tra l’altro, oltre ad emetter quei fastidiosi e ritmici tac tac tac, aveva un ghignetto soddisfatto sulla faccia che mi ha dato immediatamente fastidio.
Ho impugnato la Stratocaster che penzolava dietro la mia schiena e vedendola passare, deciso di suonare due note per lei.
Ipnotizzata dalla mia musica, lei, ha attraversato sbadatamente la strada, senza accorgersi dell’imminente sopraggiungere di un autobus.
Accorrevano urlando i passanti, il grosso parabrezza dell’automezzo era cosparso di pezzetti di cervello, i passeggeri sbraitavano, vomitavano, sanguinavano per il colpo subito, l’autista era esterrefatto, io, immobile, gustavo la scena nell’attesa di poter fare qualche cosa; cadevano dal cielo degli antiemetici, salutati come una manna dai pedoni, tutti ingialliti dalla macabra visione.
Ho ripreso a strimpellare la Fender; Joe, l’autista, si è ridestato dal suo torpore e noncurante, ha acceso il tergicristallo con ancora attaccati gli occhi azzurri della vittima e delle ciocche dei suoi lunghi capelli biondi. Aveva dipinto, così, il vetro, con il sangue della sventurata.
Io mi sono incamminato suonando, Joe ha innestato la marcia e spinto a tutto gas l’autobus di linea in direzione del Pier 35, ha preso il ponticello di legno che portava al mare, urlando a squarciagola e dimenandosi, contrapponendosi agli attacchi degli allibiti passeggeri, ormai in preda al panico.
A quel punto, sul mio cammino ho incontrato Kurt, un collega della concorrenza e ho smesso di suonare.
L’autista ha inchiodato il mezzo, ho sorriso e salutato il mio giovane amico. Gli ho chiesto dove stava andando e il tempo tutto intorno si è fermato.
Kurt mi ha detto di questa turnee in Asia col gruppo, mi ha detto: “Jimi, c’è molto lavoro per noi da quelle parti”. Gli ho risposto che conoscevo la situazione ma purtroppo il mercato per noi da quelle parti era tabù, troppi innocenti e pochi cattivi.
Joe era ad un metro dal baratro, ho ripreso a suonare, ha schiacciato l’acceleratore, il tempo ha ripreso a correre.
Ho visto almeno 15 persone galleggiare vicino al molo e altre 17 sono rimaste incastrate sul fondale insieme al bus.
Poteva bastare, ho pensato, ma continuavo a suonare.
Joe è stato l’unico superstite.

Sono intollerante di prima mattina.
Osservare la felicità altrui, l’ottuso buon umore, la fiducia incrollabile nella vita, mi dà sui nervi, la mattina.
In fondo sono un povero diavolo di città, ho uno stipendio fisso, anche se il lavoro non è sempre rose e fiori ma qui a Seattle si vive bene in fondo.
Man mano che le ore della giornata si accumulano, divento più ottimista e per l’ora dell’aperitivo il mondo è un posto in cui vivere, pieno di gente simpatica con cui vale la pena condividere i tanti o pochi anni che gli restano.
Magari gli suono una mia canzone…

 

 

 

 

 

Nascondo non

Stanotte l’insonnia sta prendendo il sopravvento, sono qui fumo davanti la finestra e, sotto la neve che tronfia e bianca scende come non mai, vedo le macchine che viaggiano schiacciando formiche mentre sempre di più,  il sonno mi schiva, come un’ abile schermitrice, e bisogna badare a non spaventarlo. Se gli dai la caccia con troppa veemenza, lui gira i tacchi come un cerbiatto e se la svigna. Non nascondo che strapperei quest’ansia dal mio petto, la plasmerei in dadi di bachelite per poi lanciarli su un interminabile tavolo dal tappeto verde ascoltando il frastuono dei giocatori d’azzardo che tutto intorno incitano l’uscita del loro numero fortunato. Non molla, non lascia la presa, con artigli attanaglia il mio cardio e fa si che io ed i giocatori vedano solo un infinito piroettare, puntini bianchi sospesi in un limbo come questa neve che tronfia e bianca scende come non mai.