Sintobiografia e sintoscritti di Antonio Pontremoli
Non odio nulla amo tutto… tutto il bello e chi lo genera. Musica: ho lavorato in radio; fotografia: ho un piccolo diploma.
Suono male la chitarra, ma mi piace accompagnarmi quando canto.
Sto cercando di scrivere (abbiate pazienza).
Ah… sono un ragazzo fortunato.
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio ma qualcuno che per noi lo ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
Ho visto la luna
Morbida, panno giallo,
girare e fare sue le stelle come note.
Ho visto polvere d’anni
alzarsi al vento leggero
e colori bruni formare carri.
Ho visto pietre disegnare visi
e foglie d’albero coprirle d’aiuto.
Ho visto notti, miniere,
radici come dita
fermarsi a pochi attimi dal mio viso,
abbandonando il coraggio d’amare.
Ho visto l’ Amore per amore scintillare,
denudando ogni movimento.
Madre aspetta il mio passo
Non ho gambe buone ora.
Sono segni di chi hai amato?
Tu hai viso rosa acceso
mani piccole e grani come spine.
Stanco di cento secoli il sorriso.
Lo sguardo lo appoggi sul mio
sudore che cola e sui miei denti
che tirano fiato.
Un amore che chiude gli occhi.
Madre aspetta il mio passo.
I miei piedi sono di inciampo ora.
È la stanchezza di chi hai amato?
Paziente il tuo respiro,
Impercettibile il movimento,
leggera la tua ombra che regge
il mio sguardo.
Madre io so cosa fare.
Tu aspetta il mio passo.
La corteccia mi riveste
come tu hai voluto.
Sarò nella primavera
di nuovo legno verde
sotto lo sguardo di chi hai amato.
Cosa vedi?
Braccia morbide in preghiera
chiedono risa dall’altra parte del muro.
Mento poggiato su ginocchia ossute a far male.
Pugni stretti.
Cosa vedi?
Vie fumano e occhi si chiudono al caldo.
Un sorriso di spuma apre di nuovo al giorno.
È speranza.
È la faccia di mio padre.
La vecchia annoda l’aglio e ti fa cenno,
ma non è sincera, Pà… non è sincera.
Cosa vedi?
Vene come cartine geografiche,
ma non portano da nessuna parte.
Solo scoglio e lacrime.
Vedi, non sono stanco sai?
La febbre ti prende e le ossa
si sbriciolano nel mio abbraccio.
«Non posso così».
«Shhhhh!».
«Cosa vedi?»
«Amore».
Arriverà nello stesso giorno,
alla stessa ora.
Mischierà sangue e prenderà forza.
«Che meraviglia!».
Anche lui non sarà mai stanco.
Echi di un amore sfuggente
Ho atteso sotto quei legni
fissandoti e ripetendo parole.
Ho atteso e il giorno era giusto.
Olio trasudava e si mischiava
mentre felici dividevamo
quello che avevi deciso.
Ho fatto degli altri la gioia
raccontandola ridendo
senza pensare al respiro
seguendo vie tatuate di
brividi al tuo passaggio.
Ho atteso ciò che non mi spettava forse,
un abbraccio che ora ha allentato la presa
e che mi ha lasciato troppo libero.
Ho atteso e non ho capito
perché mi hai profumato
senza finir poi di curarmi.
New Radio Centotresettecento
Forse era il mese di Marzo
di un anno dove le rondini
si disegnavano ancora.
Un pomeriggio ancora fresco.
Dieci tasti su un cubo rosso.
Dieci rotelle, aiutate da un
filo di rame, cercavano voci pirate.
Forse era sogno.
Ma la bocca si aprì nel sentire,
pulita, tra cento note gracchianti,
“Ventura Highway”.
Era fresco cuore.
Trenta metri di ferro bianco e rosso
sostenevano antenne, puntate
sulle vicine colline.
Un vetro divideva occhi e
panni gialli tenuti da dita tremanti.
Voce tremula ripeteva, più volte,
la stessa frase, tra i profumi
di vinile e cartone nuovo.
Era sogno.
Era telefono che squilla e
giovani dediche.
Guance rosse di piccole donne
che immaginavano volti e amori.
Erano imitazioni
dei primi pirati londinesi,
di voci roche, ruggiti ed
“erre” forti francesi.
Jingle d’autore
e “Onore al Merito“.
Primi vagiti di un mondo invisibile.
Sogno non era.
Ancora
La domenica passa senza sussurrare nulla.
Il fiato non arriva a far grossa la voce
a rendere salde le parole.
Io le lascio pensieri ,
come vele difficili da spiegare.
Spartiti senza macchia
Amori evaporati,
soffiati tra nuvole,
giurano la loro serenità e
gonfiano guance rubando sorrisi.
Amori vestiti a festa
tra vestiti di cotone leggero a fiori
e scarpe di vernice.
Passi che si fanno frettolosi
confondendosi nel richiamo
di campane.
Voci nelle gocce e nella ghiaia
calpestata del continuo camminare.
Una gonna che
svolazza come ventaglio
a intiepidire guance rosse
tra sguardi e prime parole.
Acque desiderate in un treno
In corsa , bollente come
quell’unico Amore straniero.
Cuore veloce e vecchi mercati,
castagne di Marzo legate da spago
e la loro polvere che lega gole…
tosse di risa.
Questo quello che vedo ancora,
ogni volta che ridi.
A Pascal
Non potevo , non volevo mancare.
Certo, non con cinquecento parole,
ma con un’ unica e semplice immagine.
Una delle mie, che ora diventa sua.
Ciao Pascal
Occhi
Scarno il viso,
chino su un libro di poesie.
Un bicchiere rosso davanti
e a fianco un cappello che piano prende forma.
L’ umile attesa suonando campanelli
davanti a un cancello… e donando giacca per pulire inchiostro.
Occhi come olive si specchiano
da una finestra
Cercano parole dove barche dividono
il mare dal cielo.
Non ti muovere
Rimani dove l’erba appena tagliata
ci ha visto bambini,
dove stelle alpine delimitano pascoli
e rivoli di latte,
dove le vette rosa raccolgono
il tuo profumo.
Non ti muovere,
resta in un mare ancora basso
che ti può giocare
e in onde che raccolgono sabbia
per costruir scrigni.
Non ti muovere,
perché nell’ aria ti possa incontrare
e il tuo suono possa mostrarmi il cammino.
Cinquantapertrentacique
A quattro mani con Fabrizio Pecchioli
Tremano le mani a quel vecchio pittore, che sulla rive gauche della Senna, sta cercando di dipingere Notre Dame de Paris.
I colori erano troppo forti, per una giornata d’ottobre.
Di pioggia, che fine cadeva su tutte le cose. Anche sulle sue povere mani. Ma era una scusa,una delle mille, che da tempo si raccontava, per non accettare la sua malattia.
– Ma non quel giorno! –
Cyprienne, decise così di chiudere la casetta degli oli e il treppiedi che sosteneva la tela, un 50×35.
Stavano lì, tutte le dimensioni del suo essere artista, libero e ahimè, malato di Parkinson. Se la mise sottobraccio, mentre con l’altra mano trascinava a fatica il cavalletto, che lasciava un solco sulla pioggia caduta. S’avviò lento, verso il portale della chiesa, col suo basco nero inzuppato di pioggia, che gli ricadeva sulla lunga barba grigia, dietro la nuca, fin dentro la schiena.
Come un pianto che non era mai stato capace di uscire dagli occhi.
Ancora più lenti si fecero i passi quando, percorrendo la navata centrale della maestosa cattedrale,stavano per portarlo al cospetto della Madonna,davanti all’altare maggiore. Un solo colore, il bianco del marmo pesante, che la raffigurava; un solo peso, i 21 grammi della sua anima, che stavano per chiedere grazia alla Madre.
Piegò lentamente il suo dolore, dinnanzi a centinaia di fiammelle. Nessuna al suo tremore si spense: le palpebre stanche e umide, lottarono per mettere a fuoco il regalo che stava per ricevere.
Fissò una delle tremule luci, che leggera, si rifletteva verso di lui, vide così, quei 21 grammi iniziare un viaggio brevissimo. Dal suo cuore,a quello della signora di marmo…
Sentì ogni singolo battito, ogni singolo sbalzo di sangue, stabilizzare i colori e quelle mani vetuste, d’artista.
Poi una barba, che tanto gli somigliava, riprese a dipingere con mano decisa.
I pennelli,colare gocce di vita, i suoi oli, mischiarsi sapienti di nuovo alle tele.
50X35,la grandezza d’ogni goccia di pioggia colorata, che ricadeva dal cielo come a benedirlo.
“Una mano fermissima, sulla rive gauche della Senna, dipinge Madonne, olio su tela: 50×35”.
Vincitore della Sintogara a quattro mani “Scopriamoci senza mostrarci”
Sintorima
C’era una dolce donna,
che sposando la nipote
mi diventò nonna.
Di vecchie origini, donna Pia
ma che aveva da venderne
di simpatia.
Seduta comodamente,
si annoiava a stare,
cercava toujours
qualcosa da fare.
Si mise un giorno ad
aiutar la figlia,
che di panni da piegare
ne aveva un parapiglia.
Maglie, slip e vecchi mutandoni,
la parte davanti quella
con i bottoni.
Poi tra la mani ,
un perizoma mega,
scoppiò in una fragorosa
risata domandando :
” Miiii Grà, e chisto come si piega ? “
Poesia vincitrice della gara “Le Sintorime“
Un tocco, un respiro
Un tocco leggero…
Un respiro che cerca nuovi incontri.
Palloncino che torna nella mano
di chi l’ha lanciato.
E poi il cuore impazzisce,
colpisce dove può,
come tartaruga si lascia
dondolare nella mano promessa.
Senza titolo
Sono sfondo di tessuto grezzo,
fascia bianca in rilievo.
Sono cerchio che solletica vita,
nuovo nato.
Sono viso adolescente,
tra finestre che si aprono,
vecchio dai biglietti rossi
e ciuffo di trombetta.
Sono lavoro, fatica e ferro,
il cane che morde plastica.
Sono corda tesa e luce tagliente,
viso nascosto tra cielo e realtà,
tra coraggio e gloria.
Piroetta sospesa come fiato.
Sono naso rosso e scarpe grandi
trucco e stupore,
risa fini in lontananza.
Sono gioia, viaggio e malinconia.
Un cartellone stracciato,
orme di ruote e picchetti
sul selciato.
Dimmi il mio nome
L’ origine del volto graffiato in uno specchio della vecchia soffitta.
Di quella foto che si lascia bruciare da mani acide
e che tutto nasconde.
Era rosso di colore il mio cappello?
Dimmi dell’odore, di quella bruciatura sotto il mento, del catrame che isola ricordi e del tuo sorriso nel guardarmi
Aspettavi altro?
Togli la polvere ora
Sei lontano dalle paure che questo riflesso ha gridato.
Aquiloni e comete
Legami forte e aspetta leggero.
Lasciami piano, dammi fiducia.
Sarò fedele.
Mi allontanerò quel tanto
che servirà a veder la
tua meraviglia.
Ti sarò sogno.
Volami nelle sere chiare,
lascia che la luce
riflessa nei tuoi occhi umidi
mi illumini, facendomi cometa.
Ti insegnerò libero il cammino
incontrando bambini
come te.
Cercando sogni
Chiudo gli occhi e cerco sogni.
Creo visioni in negativo
su antichi vetrini che
palpebre e ciglia
spolverano delicate.
Neri pieni che non fanno più paura
e bianchi brillanti come
sorrisi di partorienti.
Cavalli e pedoni si muovono lenti
su scacchiere di cristallo.
Guardo sotto e ricamo
visi e ombre,
suoni nitidi
e profumi corposi.
Un girotondo prezioso
che mi porta
verso il mio Re
e la Sua Signora.
Lettera ad un cielo non piccolo
Sono lo sporco, di poco peso,
piccole spalle da piegare.
Sono la vita che uno non sogna,
un etichetta “il portarogna“.
Sono della settimana un giorno,
un nome non nominato,
sono il ” menasfiga “,
un dimenticato.
Sono… “Si va tutto bene”
sono il pianto nelle sere.
Sono il sorriso che dava,
a chi toccandosi
il marciapiede cambiava.
Sono poi… che ti convinci
e non osi più toccare,
non vuoi scolorire,
che non sia tu a far perire.
E allunghi alcool al tuo salato
sapendo già d’ esser dannato.
Sono io e il mio dolore
sono ormai cattivo odore.
Scusa tanto , non ti ho salutato,
ti ho riconosciuto sai…
mi son solo vergognato.
Sappi che non porto rancore,
ho finalmente un nome,
mi chiamo Amore.
So anche che con il sorriso,
mi hai molto pensato…
nella città del silenzio,
davanti a quella foto,
sono io che ti ho portato.
A ma’
Ed io che sono stanco,
non capisco
e prego Dio…
Tu che mi prendi il volto
tra le mani e dici:
” Son contenta che hai mangiato,
buona notte amore mio “.