Sintobiografia e sintoscritti di Marco Fidilio
Sono un medico siciliano.
Mi diletto a scrivere racconti ironici, alcuni sono stati pubblicati in due antologie. Mi piace sdrammatizzare la vita, già di per sé molto drammatica.
Dore e Bianca vivono a Forlì
Mio padre
La guerra era finita e mio padre, col volto segnato da una lunghissima prigionia, appena tornato, si arruolò in polizia.
Era partito dalla sua Sicilia che aveva appena diciassette anni, con la faccia ancora piena di acne e l’aspetto di un ragazzino; fu mandato a fare la guerra in Africa, nel deserto di Sidi El Barani. Combattè contro gli inglesi per sei mesi, fu ferito in una sanguinosa battaglia simile a quella di El Alamein, fatto prigioniero e portato, dopo un lungo viaggio in nave, nei campi di concentramento in India che, all’epoca, era ancora un possedimento inglese.
Sei lunghissimi anni rimase là, con quel clima tropicale, dove pioveva per mesi e l’afa era soffocante, dove si dormiva insieme ai cobra e ai quei grandissimi pipistrelli che io chiamavo volpi volanti. Dormiva fuori dalle baracche, all’ombra dei pipistrelli appesi a testa in giù, guardando la luna e sognando un amore.
Tornò in Italia, a guerra finita, dopo sei anni di prigionia, all’età di ventitré anni.
Aveva perduto il sorriso, e buttato al vento i migliori anni della sua gioventù, senza conoscere l’amore…
Tornato in Italia, dunque, si arruolò in polizia, e fu assegnato alla questura di Forlì, dove conobbe una bella ragazza dagli occhi azzurri e dalla pelle bianca; il suo nome era Bianca. Fu subito amore, amore e passione.
Il caldo sangue romagnolo si unì a quello siculo, focoso. Neanche Bianca aveva mai conosciuto l’amore e papà, fino ad allora, aveva frequentato solo postriboli di infimo ordine, dove le ragazzine indiane si prostituivano per poco.
Fu amore travolgente, passionale, intenso. Puro.
Bianca amava le rose, le coltivava con molta cura nel suo giardino. Ogni volta che si incontravano, in quella camera in affitto, si donavano a vicenda una rosa. Bianca non chiamava Salvatore, le sembrava un nome duro, troppo siciliano; lo chiamava Dore, ché era più dolce, diceva lei.
Fu una splendida storia d’amore, sette anni strepitosi ma, come tutte le cose belle, all’improvviso, si interruppe: mio padre fu trasferito nella sua Sicilia.
A Trapani imperversava il bandito Giuliano, e papà fu mandato a combatterlo, lui che era siciliano.
Alla stazione si regalarono l’ultima rosa e l’ultimo bacio; poi mio padre partì sapendo che quello era un addio.
I genitori di Bianca le impedirono di trasferirsi in Sicilia: «Mia figlia non va dove c’è la mafia!» avevano detto.
Il pensiero di Bianca lo assillò per tutti i quattro anni di permanenza a Trapani. Doveva tornare a Forlì! Così gli venne una idea: mentre combatteva Giuliano e la mafia rurale, studiò per diventare maestro.
Di giorno faceva il poliziotto, di notte studiava, con la lampadina tascabile, sotto le coperte, per non farsi vedere dalla ronda.
Divenuto maestro, abbandonò la polizia e quando gli chiesero in che sede preferiva andare a insegnare, non ebbe dubbi: «Forlì!».
Così tornò a Forlì, dopo quattro anni, con una rosa in mano, per andare a riprendersi la sua Bianca.
La trovò sposata e incinta: i suoi genitori le avevano imposto un ingegnere locale, ottimo partito.
Bianca era sicura che il suo Dore non sarebbe più tornato.
Rimase un altro anno, a Forlì, mio padre, e si vedeva con Bianca di nascosto.
Ma Bianca era moglie e mamma, e allora il divorzio neanche si sapeva che esistesse… e poi c’era il rimorso di tradire il marito, che era un brav’uomo.
Mio padre decise: non voleva che Bianca fosse additata come fedifraga; così si fece trasferire di nuovo in Sicilia.
Alla stazione, per la seconda volta si scambiarono una rosa, si dissero di nuovo addio, con le lacrime che rigavano i loro volti. Papà tornò nel suo paese a fare il maestro, conobbe mia madre, la sposò e le volle bene;
ebbero due figli, uno ero io.
Papà ebbe sempre un comportamento onesto e corretto con la sua famiglia, ma pensava sempre a Bianca.
Si appassionò alle rose, e riempì il giardino di rosai. Le coltivava, le curava, le innestava, le mostrava orgoglioso si suoi amici.
«Amo le rose» diceva. Esse erano per lui l’unico contatto con Bianca.
Passarono gli anni, tanti anni.
A circa 60 anni mio padre si ammalò di enfisema polmonare; il dottore gli consigliò le inalazioni termali.
«Castrocaro Terme!» Decise mio padre «A due passi da Forlì!».
«Da venticinque anni non viaggio da solo, sono stato un marito onesto e corretto; ora ho la possibilità di tornare ogni anno a Forlì e rivedere la mia Bianca» pensò «ma che fine ha fatto?».
Così, prese carta e penna, e le scrisse una lettera:
Mia adorata Bianca,
devo venire a Forlì ogni anno, a settembre, per delle cure inalatorie;
mi fermerò una settimana.
Sappi che io non ti ho mai scordata, e sarei felice di rivederti, dopo tanti anni…
Non so tu che fai o se risponderai a questa lettera. Lo spero.
Sempre tuo
Dore
Dopo una settimana ricevette la risposta:
Mio mai scordato Dore,
Sono moglie, mamma e nonna, ho dei nipotini splendidi,
ma il mio cuore è sempre stato tuo.
Sarò felice di rivederti.
Tua, per sempre tua,
Bianca
E così quel 10 settembre si rividero dopo venticinque anni.
Alla stazione mio padre non vide più una ragazza , ma una signora anziana, bianca anche di capelli.
E lei non vide un ragazzo, ma un signore anziano, bianco di capelli.
«Sei bellissima» le disse lui.
«Sei bellissimo» gli disse lei.
Lui le aveva portato una rosa. Lei lo aspettava con una rosa.
Si abbracciarono, come se il tempo non fosse mai passato.
Non ho mai saputo se tornarono a fare l’amore. Forse si, forse no; ma una cosa è certa: in quella stanza in affitto parlarono molto, per giorni interi. Tenendosi per mano, oppure abbracciati.
Il 10 settembre di ogni anno, e negli anni successivi, mio padre, seppur malato, vecchio e stanco, doveva andare da solo a Forlì, e nessuno doveva permettersi di accompagnarlo, per fare quelle “miracolose inalazioni”, diceva lui.
E ci stava una settimana. Nel resto dell’anno, quando era a casa, scriveva, scriveva lettere. E ne riceveva.
La mia passione per la scrittura è nata da lui, vedendolo scrivere.
Io, da ragazzo, scrivevo solo le formazioni dell’Inter: Sarti, Burnich, Facchetti…
Lui scriveva lettere.
«Papà, ma a chi cazzo scrivi?» gli chiedevo.
«A un mio carissimo amico di Forlì» mi rispondeva.
Il problema era che scriveva a questo “carissimo amico” anche dopo la sua morte! Scriveva lettere in continuazione, e le spediva. E riceveva lettere.
Senza mittente, però; solo col destinatario:
Dore Fidilio, via… ecc ecc.
Passarono altri anni, mio padre, ormai vecchietto, aspettava questo 10 settembre con l’eccitazione di un bambino.
«Ma cosa cazzo avranno di speciale queste Terme?» Mi chiedevo io.
Il 10 settembre del 2001, Bianca, ormai ottantenne, si trascinava col bastone sulla banchina della stazione, nell’attesa, come ogni anno, del suo Dore e, come ogni anno, aveva una rosa in mano.
Era da cinque mesi che Dore non le scriveva più. Anche lui era ottantenne.
Era preoccupata.
Il treno arrivò puntuale .
Ma Dore non scese con la sua rosa in mano.
Bianca chinò il capo, e una lacrima, una sola lacrima, le bagno’ il viso.
Girò su stessa e, a capo chino, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, tornò a casa, con la Rosa che le pendeva dalla mano, anch’essa capo chino; per la prima volta, all’improvviso, si sentì vecchia. E stanca.
A casa i suoi nipotini le corsero incontro: «Nonna, nonna, ci dai la merendina?»
«Aspettate» rispose Bianca «prima devo fare una cosa».
Andò nella sua stanza e scrisse una lettera.
Mio adorato Dore,
Il mio cuore ti appartiene .
Quando ti raggiungero’ lassù in cielo , ti cercherò per tutto il Paradiso .
Ti troverò .
E staremo insieme , felici , per l’eternita ‘ .
Riposa in pace.
Ti amo.
Tua Bianca
Imbustò la lettera, ci appiccicò sopra un rosa, aprì la finestra e la gettò nel vento. Richiuse la finestra e tornò dai nipotini.
La lettera con la Rosa volò sui tetti di Forlì. Sulla busta stavolta non c’era il solito destinatario: Dore Fidilio, ecc…
Sulla busta c’era scritto: “Dore e Bianca vivono a Forlì”!
Una vita da vecchio
Che ore sono? Le sei del mattino? Ancora devo addormentarmi. Certo, se dormo durante il giorno…
Ma oggi è la festa del papà. Chissà se mio figlio mi porterà i nipotini, non li vedo da una vita, ma è normale, figurati se i bambini pensano a me, un vecchio di 88 anni!
Però mio figlio Luca viene a trovarmi tutti i giorni, anche solo per due minuti; poverino, è troppo indaffarato, lavora come un matto. E mia moglie non mi sopporta, ma io la capisco, sono pieno di dolori e la notte mi lamento; certe volte non riesco ad andare in bagno, e mi piscio pure addosso, maledetta prostata! In fondo, hanno fatto bene a mettermi una badante e mia moglie ha ragione a dormire in un’altra stanza.
Talvolta mi faccio schifo io stesso.
Ma dai su, devo alzarmi, ho la giornata piena di impegni: devo prendere almeno dieci pillole e farmi tre insuline.
Alle 7.00 arriva la badante: è una donna, ma sembra un maschio, brutta quanto la morte. Però mi tiene pulito.
E chiacchiera, chiacchiera… e bestemmia. Ma quanto bestemmia! E quante parolacce dice quando mi cambia il pannolone pieno di merda… io capisco che faccio schifo, ma che ci posso fare se non mi accorgo più quando caco? Maledetta cosa è la vecchiaia!
Dopo avermi pulito e sbarbato, quella, mi siede sulla poltrona. Ma durante il giorno io cammino, eh?
Vado dal soggiorno alla camera da letto; me lo ha detto mio figlio che devo muovermi, ed io mi muovo, faccio avanti e indietro per almeno mezz’ora. Mica è poco eh? Poi mi siedo nella poltrona e guardo un po’ di TV; ma non fanno mai niente di interessante, mi annoio. Allora prendo un cruciverba, da giovane ero bravissimo col cruciverba, ed ho trasmesso questa passione anche a mio figlio. Chissà se lui la trasmetterà ai suoi figli. Solo che, da un po’ di tempo, questi cruciverba sono molto difficili, non riesco a farli, anche perché non vedo più bene; allora mi addormento. E dormo, dormo… fino a quando non mi sveglia la voce urlante di mia moglie: «Peppinoo! Dormi sempre! Certo che poi la notte non dormi!». Dice solo questo e poi torna nella sua stanza.
È l’unica volta, nella giornata, che la vedo; non mangiamo neanche insieme, perché io mangio prima, le schifezze brodose e senza sale che mi prepara la badante.
Mia moglie vuole mangiare per i fatti suoi, poverina, anche lei ha i suoi acciacchi e non può pensare pure a me.
Sono le 19.00, ci siamo: tra poco arriva mio figlio. Questo è il momento più bello della giornata.
Speriamo che mi porti i nipotini e, magari, dato che è la festa del papà, che mi porti anche quel bignè alla ricotta che mi piace tanto.
È una vita che non lo mangio, solo brodaglie mangio.
Eccolo Luca, mio figlio, è arrivato!
«Ciao papà, come stai? Hai preso le pillole? Hai fatto l’insulina?».
«Ciao figlio, tutto fatto. Tua moglie come sta? I bambini?» «Tutto bene grazie. Scusami papà, ma vado di fretta, ho da fare mille cose ed è tardissimo».
«Non ti preoccupare, figlio. Ti puoi sedere due minuti a parlare con me? Due minuti. Non parlo mai con nessuno…» «Ma papà, credi che abbia tempo da perdere? Ho mille cose da fare, ti ho detto!… Ma che è sta puzza? Ma cazzo, apritele le finestre ogni tanto! E ti lamenti che non ti porto mai i bambini!? Rimarrebbero scioccati da questa puzza! E profumatela sta casa! Sa di vecchio! Sa di merda!».
Devo parlare con la badante. La devo rimproverare.
«Vabbe’ papà, io devo scappare. Ci vediamo domani eh? Fai il bravo e metti sempre il pannolone. E fai sempre la terapia. Ciao!» «Ciao figlio».
Quanto è impegnato mio figlio! Adesso posso andare a letto, anche se non dormirò. Non mi ha fatto gli auguri, se l’è scordato, e non mi ha portato i nipotini, ma ha ragione, c’è troppa puzza qui. E nemmeno il bignè, è troppo indaffarato. Io nel letto penserò tanto.
Penserò a quando lui era piccolo e mi stava sempre attaccato, mi venerava. Gli ho insegnato tante cose. Penserò alle nostre abbuffate di bignè, e alle letterine di auguri che mi scriveva. A quando mia moglie, la domenica, faceva le lasagne, ed era tutta una festa. Eravamo uniti e felici.
Penserò al passato, come faccio sempre… ma è ora di spegnere il lume.
Buona festa del papà, vecchio.
Buonanotte figlio mio
Buonanotte moglie
Buonanotte nipotini
Buonanotte mondo
Buonanotte vita.
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Parenti serpenti
Dicesi parente-serpente quello che non vedi mai ma si fa vivo appena ha bisogno.
Ogni estate uno di loro mi cerca, dato che ho la casa al mare. La loro tattica è chiara: ti vengono a far visita, elogiano la casa al mare e ti chiedono spudoratamente di essere ospitati per una settimana, 10 giorni.
L’altro giorno avevo una giornata di libertà e mi ero fatto un bel programmino: la mattina al mare a farmi un bagno di sole e una splendida nuotata, e a pranzo spaghetti con le vongole e spigola al sale, con tanta birra ghiacciata
Chissenefrega! Tanto dopo pranzo avrei fatto la mia pennichella.
Infatti, dopo essermi abbuffato e ubriacato, mi sono disteso sull’amaca, sotto il mio bell’albero ombroso, puntandomi addosso il ventilatore al massimo. Ah che goduria!
Dormivo come un angioletto, quando, all’improvviso, fui svegliato da una voce: «Marcoooo, Marcooo…».
«Chi cazzo osa a quest’ora?» pensai. Guardai l’orologio: le 15.30.
Mi affacciai al muro e guardai in strada: «Oddio! Mio cugino Francesco! Con tanto di moglie, figli, cognati e perfino la nonna!». E come camminava arzilla la vecchietta, più veloce degli altri!
Cercai di nascondermi, ma ormai mi avevano visto.
«Marco! Meno male che ci sei, possiamo entrare?».
«Veramente stanno tutti dormendo» risposi «comunque accomodatevi, li sveglio».
Mi aspettavo che civilmente dicessero: «Ma no, non vogliamo disturbare… ».
Invece stettero zitti.
Tutti si alzarono dal letto bestemmiando, spegnendo a loro volta i ventilatori e, barcollanti per la birra e il sonno, ricevemmo questa orda di lanzichenecchi sudata ,vestita di tutto punto (alle 15.30, d’estate!).
Ci sedemmo. Loro parlavano, noi abbassavamo la testa, ma il più delle volte essa rimaneva abbassata, vinta dal sonno, salvo poi rialzarsi bruscamente al primo russare.
All’improvviso il cugino Francesco dice: «Ho sete, mi dai un po’ d’acqua?» e mia moglie: «Cosa vi offro? Tè freddo o una birra ghiacciata? Siamo qua da poco, abbiamo solo questo».
Io, ancora rincitrullito mi sveglio del tutto: «No, ti prego, fa che non chiedano l’unica birra che è rimasta, me la devo sorseggiare io stasera, davanti alla partita, con le gambe scravaccate una a destra e l’altra a sinistra!»
Preghiera inesaudita: tutti in coro: «Vada per la birra ghiacciata, c’è tanto caldo».
Stavo per cadere dalla sedia. Mia moglie porta la birra e il tè.
Poi, rivolgendosi a me: «Marco tu lo vuoi un po’ di tè freddo?» io ruggisco «Mi fa schifo il tè freddo!».
Guardo i Lanzichenecchi che bevono la mia birra e non ne lasciano neanche un goccio e ho istinti omicidi.
Restano ancora a chiacchierare; si fanno le 17,00 e ancora non si decidono ad andarsene.
In inverno, quando ci sono visite sgradite che si protraggono fino a tarda sera, ho un modo infallibile per farli andar via: mi alzo, vado a mettermi il pigiamino e mi siedo di nuovo accanto a loro, che subito chiedono: «Vai a letto?» ed io «Si ,scusatemi ,sono stanco, ma voi restate pure ». Loro capiscono e se ne vanno.
E’un metodo infallibile.
Ma d’estate, alle 17,00, col caldo bestiale, non posso mettermi il pigiamino; allora rifletto e mi viene un’idea. Mi alzo, vado nel ripostiglio, mi metto costume, pinne e una maschera da sub, trovo persino un vecchio fucile subacqueo arrugginito. Così, vestito di costume, pinne, fucile ed occhiali, vado a sedermi tranquillamente tra di loro.
Sembro un matto da manicomio. Vedo lo sguardo stupito di mia moglie e dei miei figli, vedo mia figlia che sussurra qualcosa a mia moglie: «papà è impazzito!».
I parenti-serpenti mi guardano attoniti, finché il cugino Francesco parla: «Stai andando a pescare?» «Si» rispondo io «ma non vi preoccupate, voi restate pure».
Il figlio piccolo del cugino Francesco mi chiede: «Ma scusa, parti da qui già vestito da sub?».
«Piccola gioia ( non ricordo mai il suo nome )» gli rispondo «ognuno va a pescare come gli pare, c’è chi si prepara in spiaggia , e chi va in spiaggia già preparato». E lui insistendo: «Ma come fai a camminare con le pinne per la strada? Sembri una foca!». Ed io: «Piccola gioia, questi saranno pure cazzi miei no?».
A quel punto i cugini si alzano dicendo che si era fatto tardi e dovevano andare (perfetto, non gli ho lasciato neanche il tempo di auto-invitarsi per un week-end), ma la nonna resta ancora aggrovigliata nella sua sedia a sorseggiare la mia birra. Con la scusa di salutare le passo dietro e “casualmente” le pungo il sedere con l’arpione del fucile (avrei voluto conficcarglielo, ma mi limitai a pungere).
Si alza subito anche la nonna. Li accompagniamo in macchina, io sempre con le pinne, il fucile e gli occhiali. Prima di partire Francesco dice: «Una di queste domeniche veniamo a trovarvi, magari passiamo la giornata insieme». «Senz’altro!» rispondo «Venite quando volete, sempre se ci campiamo!».
Se ne vanno finalmente, magari toccando ferro.
In fondo cosa chiedo io alla vita? Solo di essere lasciato in pace nelle ore post-prandiali estive…
Ladri schifosi della mia birra ghiacciata, del mio sonno, dei miei sogni, della mia tranquillità e della mia felicità!
A volte ritornano… sempre tornano a Natale
Dlin Dlon!
«Eccociiiiiiii ahahahah , siamo quiiiii , dopo un anno ci ritroviamo tutti insieme che bello!».
La mia cagnolina Ameliè non sapeva dove andare a nascondersi all’arrivo del suo torturatore per eccellenza : il nipotino chenonmiricordomaicomecazzosichiama .
Io dovevo mostrarmi contento , ma mi veniva da piangere: i parenti serpenti erano arrivati a casa mia, invadendola come branchi di lupi, saccheggiandola come Lanzichenecchi, devastandola come orde di barbari .
Eccoli lì, festanti e allegri dispensare baci bavosi e orripilanti a tutti, me compreso .
Contrariamente agli altri anni però non erano a mani vuote, avevano le braccia impegnate da voluminosi pacchi e fagotti.
«Ah bene!» pensai «almeno portano qualcosa!».
«Ma che avete portato? Non dovevate disturbarvi». (Invece era ora che vi disturbaste, maledetti scrocconi! ) . Risposero all’unisono scioccandomi, come quando ti becchi una pugnalata in pieno petto.
«E beh! Abbiamo pensato che stavolta non vogliamo andarcene di sera tardi, vogliamo svegliarci con voi, stare insieme anche il giorno di Natale, non solo la vigilia, fare colazione insieme, pranzare insieme. Non cenare e basta! Però siccome non vogliamo invadere i vostri letti , abbiamo pensato di portarci questi per non pesare» e aprirono i voluminosi pacchi che io, da coglione quale sono, avevo scambiato per regali.
Alla vista del contenuto capii finalmente come si può sentire un infartuato : uscirono materassini e tende! Materassini singoli e pure matrimoniali, e tende da campeggio!
E dove costruirono questo accampamento? Nel mio salotto ! Che diventò subito un accampamento per profughi, con divani e poltrone ammassati l’uno sull’altro, tavolini spostati e tende, e materassini dappertutto .
«Zio , ma ancora fumi ? Il fumo fa male!».
La vocina stridula del nipotino chenonricordomaicomecazzosichiama, mi distolse dal mio shock .
Mi voltai verso di lui fulminandolo con lo sguardo e sprizzando fumo dalle narici come i tori e, povera vittima innocente, sfogai la mia rabbia contro di lui.
«Caro bambino, gioia della tua mamma, come ti ho detto anche l’anno scorso, voglio farmi del male come cazzo mi pare!».
Il bimbo non mi guardò più e si dedico a torturare Ameliè che mi guardò come per dirmi un ironico “Grazie eh!?”.
«Giochiamo a tombola?» chiese qualcuno.
«Siiii» risposero tutti.
«Io non gioco» dissi (odio la tombola, gioco noioso e soporifero, con tutti quei cazzo di fagioli crudi che cadono per terra . E comunque la odio anche ora che non ci sono più i fagioli. Adesso hanno messo le finestrelle sulle cartelle, le finestrelle che non sai mai se sono chiuse o se si sono chiuse da sole).
Insistettero molto e mi lasciai convincere .
«Però, faccio il tabellone» dissi. ( Almeno chiamando i numeri mi annoiavo di meno e non mi addormentavo ).
«No! , il tabellone lo voglio fare io!» urlò il solito nipotino chenonmiricordomaicomecazzosichiama.
Lo fulminai di nuovo con lo sguardo, ma stavolta fu un misto di odio, disprezzo e profonda antipatia.
« Su, Marco!» disse qualcuno «Fallo fare al bambino!».
Dopo una interminabile e soporifera tombola, e dopo aver mangiato a scassapanza…
«Apriamo i regali?» Urlò qualcuno.
«Siiiiii» risposero tutti all’unisono.
Aprimmo i soliti regalini minchiolini: il bagno schiuma a quello, il grembiulino a quell’altra, lo sciallino, il solito rosario per la nonna, e per me?
I soliti, odiati, maledetti calzini! ( ma che cazzo me ne faccio dei calzini? Ogni anno i calzini! Ma regalatemi una stecca di sigarette no?)
Poi qualcuno propose un gioco.
«Esprimiamo un desiderio a testa, per il prossimo anno che si avvicina!».
Tutti dissero le solite frasi fatte sulla pace, sulla maggior serenità, sul lavoro, sulla situazione economica chesperiamomigliori, ecc…
Il nipotino chenonmiricordomaicomecazzosichiama parlò prima di me.
«Io vorrei vivere sempre qui, a casa dello zio Marco, con Ameliè!».
A questo punto toccava a me.
«Il mio desiderio più grande non è per il prossimo anno, ma per oggi, ed è quello di avere un bel mitra fra le mani e tatatatatatà mitrgliarvi tutti, abbattervi, uccidervi tutti, vedere il vostro sangue macchiare i vostri cazzo di materassini e tende!».
Ridevo, con gli occhi sbarrati come i pazzi che si vedono nei film horror.
Naturalmente questo lo pensai soltanto; in realtà, accarezzai la testa del nipotino scassaminchia.
«Penso che Ameliè sarebbe molto felice se tu vivessi qui, gggggioia, ed io pure!».
E con questo suscitai il sorriso compiaciuto di tutti e quasi ricevetti un applauso, tranne che da Ameliè , che mi diede una zampata e un morso sullo stinco.
Notte al 118
Scherziamo e ridiamo, mangiamo la pizza,
all’improvviso, la chiamata.
A sirene spiegate non ridiamo più,
ci concentriamo sugli strumenti.
E’ in arresto… carica… via tutti… SCARICA!… massaggio… via tutti… carica… SCARICA!… adrenalina… bestemmie, sangue sudore vomito, sangue ancora…
Aspira… massaggia… adrenalina… carica… SCARICA!
Si riprende, è vivo!
Si piange, si ride, ci si abbraccia tutti.
Si rientra a sirene spente cantando a squarciagola.
Ci si ferma,
il sole sta facendo capolino.
E´ l’alba di un nuovo giorno;
la guardiamo pensando che anche quell’uomo la guarderà,
guarderà un’altra alba e rinascerà.
Anche questa notte è passata.
Ti racconto una storia, anzi, una favola
Dove lavoro c’è un branco di cani randagi che terrorizzano il paese.
Con tutto quello che si sente in tv, di persone dilaniate e sbranate dai branchi, la gente scappa, urla e protesta e vuole abbatterli.
Una sera facevo il turno di guardia (sono medico) ed ero fuori a godermi il freschetto.
All’improvviso dal cancello entrarono 5 cagnoni, tutti grossi, tutti randagi; si avviarono subito verso di me a passo lesto. Io rimasi impietrito . Non avrei avuto il tempo di entrare dentro. Stetti immobile . I cani mi circondarono e mi annusarono. Sudavo freddo, avevo paura che il mio minimo gesto scatenasse il loro attacco. Il più grosso, quello che sembrava essere il capobranco, mi guardò fisso negli occhi, poi col muso spinse verso di me un cane tutto bianco e molto smagrito. Questi aveva il dolore negli occhi, lo si vedeva subito.
Molto timidamente e con la coda in mezzo alle gambe mi poggiò il muso sulla gamba, guardandomi con occhi imploranti. Azzardai una carezza per farmelo amico e gli diedi un biscotto che avevo in tasca.
Lui cominciò a leccarmi le mani e più lo accarezzavo, più mi strofinava il muso sulla gamba.
Voleva che continuassi, voleva le mie carezze.
Gli altri cani si misero a cerchio e si sdraiarono per terra, come se aspettassero qualcosa.
Solo il capo branco si avvicinò al cane bianco e gli leccò l’orecchio. Continuammo così per un bel po’, io lo accarezzavo, il capobranco lo leccava e gli altri seduti a cerchio.
Fino a quando anche il cane bianco si sdraiò e fece come per dormire.
Dagli ululati strazianti degli altri cani capii che era morto.
Io rientrai dentro e loro me lo permisero.
Rimasero attorno a lui tutta la notte, ululando di tanto in tanto.
Quel branco mi aveva portato un cane moribondo per fargli avere il conforto di un umano prima che morisse.
I cani hanno bisogno degli uomini e delle loro carezze.
Da allora la parola branco non mi spaventa più.
A Pascal
Dopo aver fatto l’amore, dopo aver amato, dopo aver litigato, dopo aver sofferto di gelosia, l’unica melodia che preferisco, che amo e che mi accompagnerà sempre, sarà quella degli usignoli, quando camminerò da solo nel bosco. Gli usignoli canteranno e mi lasceranno in pace, da solo, con i miei pensieri e con l’unico vero amore che ho: quello per me stesso.
E sarò finalmente felice.
Custode di bagni per mezz’ora e per caso
A Foggia, in attesa del pullman che mi riporta in Sicilia, mi accorgo che la batteria del cell è’ quasi scarica.
«Eh no cazzo ! Devo aspettare almeno due ore, come faccio senza cellulare? Senza Messenger? Senza Facebook? Come lo passo il tempo?».
Entro in stazione alla ricerca disperata di una presa di corrente, ma non la trovo.
Vado nei bagni per fare pipì e pago 70 centesimi ( 70 centesimi per una pipì ?); allorché mi accorgo che accanto al tavolino del custode c’è una bella e succosa presa di corrente che mi dice: ” Vieni, vieni, carica qui! “.
Allora faccio una proposta indecente.
«Ascolti» dico al custode «le dispiace se carico il mio cellulare nella sua presa? ».
«Va bene, ma lei deve stare qui con me però!».
«Eccerto che sto con te, mica lo lascio il mio cell!».
Per ringraziarlo gli do un euro per un caffè, che lui accetta volentieri.
Quindi in totale una pipì mi è costata un euro e 70 centesimi!
Mi siedo accanto a lui e mi sono ritrovato custode di cessi anch’io.
La gente entrava e si lamentava di dover pagare, e lo faceva con me!
Parlavano con me.
Un tizio, tutto incazzato: «70 centesimi per fare pipì? Ma io la faccio fuori!».
«E la faccia fuori che me frega a me!» gli rispondo io.
«Ma chi l’ha stabilito stò prezzo?» continua il tizio «Voi? Siete dei ladri!».
«Ma che gliene frega a lei? O la fa qui e paga oppure la va a fare dietro un albero!» Controbatto.
Il tizio se ne va brontolando.
Poi arriva una signora: «Quant’ è?».
«70 centesimi!» Rispondo.
A quel punto il custode girandosi verso dio me: «Scusi, ma lei non doveva caricarsi il cellulare? Stia al suo posto e non mi rubi il mestiere!».
«Oh mi scusi!» Gli rispondo «L’ho fatto per ingannare il tempo e mi sono compenetrato nella parte»
«Ecco, ora si scompenetri!» mi freddò lui.